V Video

R Recensione

6,5/10

Goat

Commune

Now you’re looking for the secret. But you won’t find it, because – of course – you’re not really looking. You don’t really work it out. You want to be… fooled.

Michael Caine, The Prestige

In un vecchio pezzo sui maudlin of the Well, scrivevo che è facile, oggi, di clic in clic, fare (o cercare di fare) il giornalista musicale. Rimarco il concetto. Non solo è facile: è facile farlo male. Un esempio? Abbiamo speso fiumi di inchiostro su Korpilombolo, questo misterioso zacholust’e sospeso a metà tra Svezia e Finlandia, scegliendo consapevolmente di berci la storiella della comune psichedelica e dei vecchi culti pagani e dell’afrobeat scandinavo e avanti così, ad libitum. Mai che qualcuno – e noi per primi – si sia preso la briga di svelare la vera identità dei Goat, chi come cosa quando perché. In Rocket Recordings chiaramente sapranno, e volendo si potrebbe anche interpellare sul tema illustri compagni d’etichetta (leggasi Lay Llamas): ma citare ancora una volta Korpilombolo è più semplice e rassicurante dell’alzare una maschera, del passare per sfrontati. Due piccioni con una fava. I Goat rimangono il baraccone circense imperscrutabile perché nessuno, forse, vuole scrutarlo: vogliamo tutti, nolanianamente, essere ingannati.

È nello specchio dei rimandi e delle fate morgane che “Commune” colpisce, dunque: negli abbagli e nelle rifrazioni che cerca rifugio quando la situazione lo richiede. Il successore dell’acclamato (a ragione) “World Music” e opera seconda del collettivo svedese registra un prevedibile e fermo passo in avanti verso l’iterazione come porta freak (e passatista) della percezione: lo si traduca in impasti strumentali che del kraut portano i segni della ciclicità (il tribalismo gonfio d’incenso di “Talk To God” che, sulla scia delle due “Diarabi”, si riflette nei Tinariwen acidi della cripto-repriseGathering Of Ancient Tribes”) e del Medio Oriente quelli degli arabeschi, specialmente chitarristici (il singolo “Hide From The Sun” camuffa abilmente il Santana sciamanico di Woodstock – sentirsi l’assolo fuzz in tempi dispari – in una narcisistica scenografia Ash Ra Tempel). Quasi dispiace che, nel marasma fumoso di ninnoli, a recitare la parte delle vittime sacrificali siano gli apprezzabilissimi inserti ballabili, residui incendiari della disco-prog che fu e relitti funk in metastasi: giusto il wah che sinuoso scivola sull’incrocio vocale di “Goatchild” (ma terribile l’apertura in maggiore, che fa quasi presagire sbandate AOR) ed il basso imponente della successiva “Goatslaves” (quasi un fast forward di “Last Train To London” degli Electric Light Orchestra, campionature kitchissime di volatili tropicali incluse nel prezzo) riesumano “quei” Goat.

Come al solito la vince il dettame hardcore per cui less is more: sopra i quaranta – traguardo peraltro già ragguardevole – la paura fa novanta. E non si può certo dire che i Goat abbiano paura: a guidarli, l’orizzonte berbero di “The Light Within” e le dettagliate, per quanto vagamente terzomondiste, descrizioni pentatoniche di “To Travel The Path Unknown”. Oltre, forse, i limiti di un gruppo che rischia di confondere identità con identificazione.

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Voto degli utenti: 7,8/10 in media su 2 voti.
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fabfabfab 7,5/10

C Commenti

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fabfabfab (ha votato 7,5 questo disco) alle 21:33 del 30 ottobre 2014 ha scritto:

Sempre in bilico tra cialtroneria e genialità. Divertentissimi, comunque.