Goat
Commune
Now youre looking for the secret. But you wont find it, because of course youre not really looking. You dont really work it out. You want to be fooled.
Michael Caine, The Prestige
In un vecchio pezzo sui maudlin of the Well, scrivevo che è facile, oggi, di clic in clic, fare (o cercare di fare) il giornalista musicale. Rimarco il concetto. Non solo è facile: è facile farlo male. Un esempio? Abbiamo speso fiumi di inchiostro su Korpilombolo, questo misterioso zacholuste sospeso a metà tra Svezia e Finlandia, scegliendo consapevolmente di berci la storiella della comune psichedelica e dei vecchi culti pagani e dellafrobeat scandinavo e avanti così, ad libitum. Mai che qualcuno e noi per primi si sia preso la briga di svelare la vera identità dei Goat, chi come cosa quando perché. In Rocket Recordings chiaramente sapranno, e volendo si potrebbe anche interpellare sul tema illustri compagni detichetta (leggasi Lay Llamas): ma citare ancora una volta Korpilombolo è più semplice e rassicurante dellalzare una maschera, del passare per sfrontati. Due piccioni con una fava. I Goat rimangono il baraccone circense imperscrutabile perché nessuno, forse, vuole scrutarlo: vogliamo tutti, nolanianamente, essere ingannati.
È nello specchio dei rimandi e delle fate morgane che Commune colpisce, dunque: negli abbagli e nelle rifrazioni che cerca rifugio quando la situazione lo richiede. Il successore dellacclamato (a ragione) World Music e opera seconda del collettivo svedese registra un prevedibile e fermo passo in avanti verso literazione come porta freak (e passatista) della percezione: lo si traduca in impasti strumentali che del kraut portano i segni della ciclicità (il tribalismo gonfio dincenso di Talk To God che, sulla scia delle due Diarabi, si riflette nei Tinariwen acidi della cripto-reprise Gathering Of Ancient Tribes) e del Medio Oriente quelli degli arabeschi, specialmente chitarristici (il singolo Hide From The Sun camuffa abilmente il Santana sciamanico di Woodstock sentirsi lassolo fuzz in tempi dispari in una narcisistica scenografia Ash Ra Tempel). Quasi dispiace che, nel marasma fumoso di ninnoli, a recitare la parte delle vittime sacrificali siano gli apprezzabilissimi inserti ballabili, residui incendiari della disco-prog che fu e relitti funk in metastasi: giusto il wah che sinuoso scivola sullincrocio vocale di Goatchild (ma terribile lapertura in maggiore, che fa quasi presagire sbandate AOR) ed il basso imponente della successiva Goatslaves (quasi un fast forward di Last Train To London degli Electric Light Orchestra, campionature kitchissime di volatili tropicali incluse nel prezzo) riesumano quei Goat.
Come al solito la vince il dettame hardcore per cui less is more: sopra i quaranta traguardo peraltro già ragguardevole la paura fa novanta. E non si può certo dire che i Goat abbiano paura: a guidarli, lorizzonte berbero di The Light Within e le dettagliate, per quanto vagamente terzomondiste, descrizioni pentatoniche di To Travel The Path Unknown. Oltre, forse, i limiti di un gruppo che rischia di confondere identità con identificazione.
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