Assemble Head In Sunburst Sound
Manzanita
Prendersi del tempo per scivolare, consciamente, fuori dal tempo. I – discutibili – paradisi artificiali ricreati a distanza di decenni possono essere insidiosi, perché contengono al loro interno, in maniera del tutto connaturata, la loro stessa distruzione: una indiscutibile (e spesso indistinguibile…) mendacità ontica di base. Si può immaginare la forma, riprodurne le sembianze, ma non fotocopiarne l’esplosività, il contesto storico, il contorno ambientale, il fuoco politico. Eccetera eccetera. Per cui: di San Francisco – musicalmente parlando – ne è esistita una sola. Quello che è venuto dopo, sulla stessa scia, è stata pura passione ed onestà tradotte in mimesis che, con tutte le discrezionalità del caso, un doppione è, e sempre un doppione rimane. Siete resistiti allo spataffione? Bene. Con obiettività, e placido distacco di chi non aveva potuto essere lì a quel tempo, si possono così giudicare gruppi come gli Assemble Head In Sunburst Sound, collettivo freak statunitense attivo sin dai primi Duemila, che della stagione psichedelica pre-irrobustimento hard rock, e delle good vibes californiane, ha assorbito metodo e libertà espressiva, come un neonato il latte dalla madre.
Tra “Ekranoplan” (2007) e “When Sweet Sleep Returned” (2009), il periodo a cavallo del quale gli AHISS hanno guadagnato notorietà e convinzione nei propri mezzi, venivano riesumati i Comets On Fire di Ben Chasny (noto più come solista, sotto il monicker di Six Organs Of Admittance) come il nome di più facile paragone e a più stretto contatto con il modus operandi dei nostri statunitensi. La transizione verso canali sonori maggiormente tradizionali, sgombrato il campo dai filtri interpretativi del Nuovo Mondo teso in retrospettiva, si completa con “Manzanita”, vertice che chiude un quadrilatero di iniziale, graduale affrancamento dai numi tutelari dei Sixties, ai quali il gruppo torna solo oggi, dopo un viaggio lungo quasi dieci anni. Gli Assemble Head In Sunburst Sound, dunque, riportano tutto a casa, confezionando un disco che è, allo stesso tempo, gustoso atto di conservatorismo melodico e consunto dagherrotipo di una stagione che ha visto rinascere, prepotente, l’interesse verso un bagaglio di frammenti musicali e lirici angustamente e scomodamente confinati nel quinquennio ’65-’70. “L.A. Sacrifice” si accoccola, indisturbata, nello spazio ideale che si apre tra Doors e Quicksilver Messenger Service: incrocio di tonalità vocali, chitarre brillanti dai riverberi acidi, un organetto in sottofondo a gonfiare la melodia. La strumentazione dei Grateful Dead e la cinematicità dei compagni d’etichetta Quest For Fire si danno appuntamento nel tip-tap psych di “(Gone) 'Round The Corner”, i Fleet Foxes ipnotizzati da mescalina per sei corde, in un finale che è dolcissimo tripudio armonico. E così via: “The Flume” sembrano i Jefferson Airplane ricantati nell’era del post-grunge, “Blue Wire” è un blues dinoccolato, con ampie concessioni alle divagazioni strumentali (splendidi i botta e risposta tra chitarra e piano) che sa dei Creedence di “Bayou Country” nelle strofe; su “Green Meadow Slowdown” aleggiano addirittura le spire di un flauto traverso, in un malinconico arrangiamento che sfiora i crismi della perfezione.
Spesso, di lavori del genere, si parla – e a ragione – da una prospettiva spiccatamente critica: manca il feeling, manca la perizia tecnica, mancano (soprattutto) le canzoni… “Manzanita”, aldilà della fin troppo palese autoreferenzialità, non rientra in questa tipologia. Suggeriamo, anzi, tre modelli specifici in risposta alle relative contestazioni: la solarità corale di “Low Island Blues”, la selvaggia elettricità di “Sunshine”, l’anthem cajun di “Slithery Thing”.
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