Portishead
Third
Che tra un disco e l’altro dei Portishead facciano in tempo a crescere intere generazioni, tutto sommato, poco importa, se alla fine sono loro, con pochi altri, a segnarle col marchio. La solita P.
Tra il ’94 e il ’97 fu il trip-hop. Ne sono usciti ragazzi cresciuti a basi hip-hop rallentate, bassi dub, moog, atmosfere cupe e lamenti sensuali. Giovinezze plumbee. Di certo nessun segnale di rilassamento proviene da questo disco asfittico, duro, ossessivo. "Third" è pesante come un macigno, è una galleria di sonorità tormentose e martellanti, di interferenze e gridi. Dal trip al thrill.
Rispetto al passato, qui, nessuno scratch, nessun sample, nessuna vena malinconica (non c’è una "Undenied"), molta meno melodia, meno ricami dolci, niente piano. Ci sono, assieme, una disposizione folk che emerge carsicamente (senz’altro alimentata dall’esperienza solista della Gibbons, sotto il segno di Drake) e una attinenza thrilling più maniacale e opprimente. Quasi tutti i pezzi hanno un inizio paranoico, con i suoni sostituiti dai rumori, le note da sommovimenti sporchi, le armonie da incrinature e disturbi, fino ai margini di un noise-hop che applica il riverbero a ogni singolo segnale acustico (sentire "We Carry On" e "Magic Doors" su tutte).
Le modulazioni musicali sono schiacciate da sottofondi meccanici che fungono da schiacciasassi, con un effetto appiattente che si ripercuote su tutto l’apparato strumentale, risparmiando soltanto la voce della Gibbons (di cui, più che nel passato, si coglie la natura sofferta e lacerata, terribilmente umana). Il risultato è un’alternanza tra scarna essenzialità e impetuoso ammasso sonoro, tra tregue di sussurrato raccoglimento interiore e un’enfasi noir che tutto travolge (esemplare "Small", che inizia come una PJ Harvey in sordina e chiude tra lo psichedelico e il funerario, con batteria a mo’ di marcetta), tra un’emersione quasi eroica della poca umanità possibile e affogamenti, collisioni, stordimenti.
E allora ci sono suoni che somigliano a travi di legno picchiate contro il cemento ("The Rip"), a boomerang metallici o lame di eliche giganti ("Plastic"), a segnali morse ("We Carry On"), a mitragliatrici o travi di ferro dentro industrie metallurgiche ("Machine Gun"), il tutto in un impasto in cui il suonato mantiene, tuttavia, una preminenza rilevante.
La suspense, intanto, diventa paura, l’inquietudine angoscia: "Silence", galleria di suoni assillanti rimbombante di percussioni veloci e primitive, si blocca nell’acme di un crescendo, come in un film dell’orrore; in "Plastic" sembra di scappare da un incubo di ferraglia che ritorna sempre più tagliente (e quel rumore di risucchio ai 2:13 mette i brividi), fino al finale mastodontico di electro-noise; "Hunter", folk in salsa trip-hop, ha inserti fuori chiave che disorientano, soprattutto quando il pezzo, verso la fine, sembra accelerare e assumere un’ipnotica ritmica house.
Barrow si è fatto più eclettico. In "The Rip" (forse il momento più onirico e disteso) fa il Jean-Michel Jarre (di "Oxygen"): da un attacco di acustica e theremin si passa a un’elettronica nordica. Utley agisce di conseguenza: sega deciso in "Silence", dà tocchi acidi a "Nylon Smile", e raggiunge l’apice in "We Carry On", sopra una base di techno teutonica e percussioni selvagge, quando piega in una direzione dark-wave ultra-distorta. I Portishead che suonano come i Joy Division: memorabile.
Non c’è pezzo che non proceda in modo sghembo e irregolare. Fa eccezione "Magic Doors", con synth come cornamuse e un inserto dadaista spettrale fino allo choc, su un testo, più degli altri, introverso e dolente (perla nascosta). L’intermezzo black-soul di "Deep Water" (un banjo!) è troppo rapido. In "Threads", altro gioiello vecchio stile, Beth fa la prefica, urla in modo lancinante, ma finisce per essere inghiottita da un suono cupo che chiude il disco, colossale e incontrastato.
La vetta, però, e il momento più innovativo, tra trip-hop e industrial, è "Machine Gun", una "Blue Monday" al rovescio (il pattern è lo stesso, solo più lento), apocalittica e buia. Beth trascina un disperato canto di sopravvivenza sopra una scarica di proiettili e riverberi di bassi profondissimi, suggerendo come sia devastante far resistere una sensibilità fragile e sovresposta nel magma di acciaio che è il mondo. Da brividi il finale à la Kraftwerk. I Portishead avrebbero potuto scrivere solo questo pezzo e poi andare a raccogliere fiorellini di campo per tutta la vita e sarebbero comunque entrati nella storia della musica dark (e della musica tout court).
P3 sarà un marchio, senz’altro. Una lettera, un numero, e si saprà che sono tornati, più crudi, più scuri, e sempre più imprescindibili.
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