Jason Feathers
De Oro
Justin Vernon è fra i pochi parolieri di vaglia degli ultimi anni. E' un musicista a tutto tondo, uno che ha qualcosa da dire, e che - come tutti i grandissimi della canzone d'autore - è in grado di indagare le nostre sfere personali, e magari di tradurre ferite e pensieri confusi in discorsi comprensibili, in giochi di parole, in immagini limpide.
Per di più, assomiglia a Re Mida, perché rappresenta un valore aggiunto per tutto ciò che tocca: un esempio su tutti, lultimo, frastornante capolavoro di Colin Stetson, avanguardia coraggiosa che riesce ad amalgamarsi con la purezza angelica delluniverso Vernon.
De Oro è unaltra collaborazione: questa volta Justin si traveste da Jason Feathers e unisce le forze con il rapper sudista Astronautalis vero e proprio guru dellarea south da una manciata di anni.
Arrivo al punto: il disco è un esperimento riuscito a metà.
Intendiamoci, le idee ci sono: rap sinuoso e furtivo, nella migliore tradizione dellarea (spesso riprodotto su frequenze cavernose), che si diluisce in composizioni eclettiche e gravide di riferimenti, mentre Justin alza la sua voce dolcissima. Gli impasti strumentali (una tavolozza di trovate elettroniche, beat regolari, qualche momento più piacevole e dilatato) suonano sovente sui generis.
I momenti vitali, insomma, non mancano: la lunga coda strumentale della splendida Sacred Math, per dire, sta da qualche parte nei pressi di I Cant Make You Love Me (è altrettanto densa, inconsolabile, ariosa).
Il dialogo fitto e corposo della conclusiva Gold Standard, puntellata da una tastiera in lo-fi e ruvida quanto basta, è un'altra colonna portante: Justin accende un crescendo melodico efficace mentre il rapper sbiascica su frequenze torbide e alterate; anche Canary in a Goldmine, che suona quasi un ibrido fra gli ultimi Dalek e il Vernon ispirato versione Bon Iver, è un pezzo notevole.
Altrove però il duo mi convince meno: ad esempio, in Leave Your Stain la combinazione di rap e melodia scivola nella banalità; la batteria elettronica martella incessante mentre il brano non decolla mai, incapace di coniare un linguaggio dotato di mordente e presa, e che anzi abusa di effetti e di trucchi triti e ritriti;
Anche Young as a Fuck è pesante, e rovina in un tamarrismo sfacciato ma sbiadito, salvato giusto in corner dalla convinzione che sorregge il proclama di Justin (il solo di chitarra poi, nella sostanza, non fa che peggiorare le cose).
Limpressione è che i due cerchino una fusion troppo fluida e a tratti insipida, e che a mancare sia (con le dovute eccezioni) soprattutto la qualità dei pezzi, che in troppi casi (Courtyard Marriot) scivolano senza lasciare il segno, tarpati da un eclettismo cercato ed esibito, e quindi non sempre naturale. Anziché sommare le forze, i due sembrano un po depotenziarsi luno con laltro, ed è un peccato.
La speranza, quindi, è che si tratti quasi di una prova tecnica di trasmissione: le intuizioni ci sono ma manca ancora una mano in grado di portarle a un livello superiore, di cavarne il meglio.
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