Big Star
Radio City
La parabola artistica di Alex Chilton e dei suoi Big Star è stata breve e intensa come la scia luminosa di una stella cadente. Una vicenda incredibile di meravigliose sconfitte, tragedie umane e bruciante passione degna del grande romanzo americano. E, soprattutto, un testamento di straordinarie canzoni illuminate dalla Grande Stella dell’idealista Chilton, un romantico giovanevecchio custode dei nostri sogni adolescenti. A volte succede che i piccoli particolari fanno la differenza e ti ritrovi a elencare gli appuntamenti mancati della tua buffa vita, magari perché sei arrivato troppo tardi oppure è stato proprio il destino burlone con gli occhi chiari e limpidi di una ragazza a fregarti sull’orario. Coincidenze fatali che possono cambiarti la giornata e le prospettive, anche a chi è benedetto da un abbecedario pop divino che tante altre celebrate band potevano sognarsi. Lo strano caso della carriera dei Big Star è lì appeso dagli anni Settanta a dimostrare che basta poco per trasformare progetti di gloria rock’n’roll in un Vietnam di cocenti delusioni.
“#1 Record” confezionava coi controfiocchi l’amato hard-blues della British Invasion insieme a un malinconico folk-rock dai cori westcoastiani, aggiungete il mai sopito amore per i Beatles e avrete la nuova parolina magica destinata a rallegrare le nostre giornate di sole: “power-pop”. Ma uno sconsolante e totale flop in classifica non servì granché alle casse dell’Ardent Records, che aveva già preventivato un secondo coming-out nei suoi studi con la supervisione di John Fry. “Radio City” sarà pronto e impacchettato nel febbraio 1974, dopo una lavorazione abbastanza tribolata e la perdita di qualche pezzo importante (il rimpianto chitarrista co-fondatore Chris Bell, che intanto tentava la carta solista con l’ottimo “I Am The Cosmos”), però la dea bendata aveva ormai la vista di Ray Charles che guida ubriaco su un’interstatale e decise di abbandonare definitivamente i ragazzi di Memphis, ridotti a trio. Chilton, Hummel e Stephens ultimarono le sessions a strappi, con il contributo esterno del batterista Richard Rosebrough e di Danny Jones al basso, menomati dalla situazione precaria dell’etichetta Ardent in procinto di passare alla nuova distribuzione Columbia (la quale assorbì l’intero catalogo Stax). Appena ventimila copie vendute e una promozione inesistente testimoniavano con sconfortante cinismo la suicida miopia discografica di cui furono vittime Chilton & co.
Niente avrebbe potuto comunque scalfire il valore di “Radio City”, un grande album che perfezionava la formula dell’eccellente esordio con il riconoscibile copyright di floreale e scavezzacollo pop-rock. Le onde lunghe della Città Radio sarebbero giunte fino agli anni Ottanta di R.E.M. e Replacements (Peter Buck era un vero fan dei BS e non esitò un istante a produrre un Chilton perso nell’oblio che sbarcava il lunario facendo il tassista, o se capitava il bidello, giusto per rimarcare l’umiltà dell’uomo) attraverso classici chiamati “Life Is White”, tenero folk con armonica dylanesca e il canto commovente del leader, l’elegiaca “What’s Going Ahn” (John Lennon a braccetto con i Buffalo Springfield) e gli incantevoli amori prigionieri della byrdsiana “You Get What You Deserve”. I Big Star erano i cantori dell’innocenzaincoscienza che ti porta via a vent’anni sul sedile posteriore di un’auto (la grandiosa “Back Of A Car”, qualcosa tra il candore beatlesiano di “Ticket To Ride” e l’impeto Who), con i Kinks conficcati nel cuore (il garage-beat danzante di “She’s A Mover”) e un minuto di piano da “White Album” che culla un’anima stanca e affamata (“Morpha Too”).
Il beffardo country-r’n’b dell’iniziale “O My Soul” lambisce invece gli anni Novanta dei discepoli alt-country Wilco, con la batteria secca di Jody Stephens e il basso di Andy Hummel a correre dietro gli slalom rockabilly del capo. “September Gurls” è il profumo dell’estate agli sgoccioli, la sabbia sempre sulla pelle e gli ultimi sorrisi rubati in spiaggia, uno dei vertici ineguagliati dell’arte Pop di Alex Chilton. Tutti siamo stati innamorati e dolcemente ebeti almeno una volta (tranne Chuck Norris, ma lui è un alieno di Plutone), e se le parole di miele del breve congedo acustico “I’m In Love With A Girl” hanno per voi un significato immortale, la notte del diciassette marzo alzate lo sguardo sul cielo stellato. Quando la “Big Star” dell’indimenticato Alex brillerà più forte delle altre, saprete chi ringraziare.
“Sitting in the back of a car, music so loud can't tell a thing…Thinking ‘bout what to say and i can't find the lines…”
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