V Video

R Recensione

7/10

Wire

Red Barked Tree

Il 1979 di “I Should Have Known Better” non tornerà più, come Mariel Hemingway nel finale di “Manhattan”. Proviamo allora a metterci nei panni striminziti dell’indeciso Isaac, e aspettiamo quei sospirati “sei mesi” che ormai sono diventati anni, decenni (la svolta dance-rock anni Ottanta l’abbiamo rimossa). Un periodo infinito negli almanacchi discografici, ma per i Wire di Colin Newman questo e altro. Nel loro caso “seminale” non è il solito aggettivo da grandeur porno, perché la band nata al Watford Art College profetizzò il domani meglio di chiunque, spingendosi oltre il punk nella sua culla (l’incendiario 1977 della Bandiera Rosa) e completando un trittico di micidiale bellezza programmatica con la new-wave progressista di “Chairs Missing” e il concettuale, definitivo “154”. Se l’Iggy epoca Stooges viene universalmente riconosciuto “padrino del punk”, i Wire lo furono dei detriti esistenziali lasciati ai margini dal nichilismo chiassoso e un tanto al chilo di Sex Pistols & co. Non puoi dimenticare facilmente lo spleen magnetico e introverso di “Practice Makes Perfect”, quando in giro c’era chi sputava nel microfono un banale “No Future” con le spille da balia infilate nel labbro inferiore.

A circa trentacinque anni dal fulminante esordio targato Harvest (che significava Pink Floyd) e una reunion Duemila sancita dagli spigoli electro dell’ottimo “Send” (2003) e da un onesto “Object 47” senza il co-fondatore Bruce Gilbert, che intanto lasciava la casa-madre nel 2004, eccoci ancora a parlare di questi vecchi intellettuali new-wavers al tempo dei social-networks e dell’i-pod. Gli Wire sanno che il passato è un vestito che scolorisce presto e chiedono apertamente la nostra familiare confidenza in “Please Take”, l’incipit cadenzato e di gran classe wave del nuovo “Red Barked Tree”. Un suono-marchio di fabbrica che intende subito smarcarsi dalla pallida fotocopia autoreferenziale di tanti coetanei e ribadire la centralità nel presente di gente che ha seminato per Mission Of Burma, Gioventù Sonica, Slint, Fugazi, insomma il cosiddetto post-rock, il noise e l’avanguardia rock di buona parte dell’alternative in circolazione. L’Albero Di Corteccia Rossa scarnifica la scatola sonora Wire all’essenziale, magari a un ascolto veloce e distratto potrà sembrare una semplicistica riconversione degli antichi furori (il battito sincopato di Robert Grey nei rimbalzi ritmici di “Now Was”, i “Two Minutes” potenti e distorti, le sciabolate elettriche di Colin nell’adrenalinica “Moreover”, la rocciosità quasi heavy di “Smash”) e invece è l’esperienza dei saggi che fa la differenza e custodisce l'essenza della Forza, come insegnava il maestro Yoda. Il menù del giorno è variegato da alambicchi melodici in zona Slowdive via Stone Roses (le trame eteree di “Adapt”), P.I.L. in trasferta a Madchester (“Bad Worn Thing”, con il basso dub di Graham Lewis in evidenza), l’innodica “Clay” sulle tracce della gloriosa “The 15th” e un’insinuante “Down To This” che solletica parecchio il tasto repeat. Nota a piè pagina l’inconsueto sipario di “Red Barked Trees”, che apre inediti scenari di prog-folk tardo sixties non troppo distanti da certi XTC bucolici (un ritmo in 34 tra afflato acustico, organo e bouzouki, a detta di Newman la loro personale versione dei Pentangle! Divertente al pensiero che nell’età dell’oro qualcuno li avesse ribattezzati “Punk Floyd”). Su tutto la voce glaciale, l’elettricità sporgente e le manipolazioni sonore del producer-maximo Colin Newman.

“Red Barked Tree” è uscito nei suoi 39 minuti dapprima in digital download il 20 dicembre 2010 (le prime duemila mail-order hanno ricevuto in omaggio l’ep “Strays”, che include gli inediti “Underwater Experiences”, “He Knows”, “German Shepherds” e “Boiling Boy”) e il 10 gennaio di quest’anno su label Pink Flag. L’artwork di Jon Wozencraft è basato su una fotografia che mostra in dettaglio un’opera d’Arte Povera dell’artista greco Jannis Kounellis e riflette idealmente il concept alla base dell’album: l’alchimia naturale come vero ponte di conoscenza, contrapposta a quella schiavitù tecnologica che proprio i Wire ipotizzarono nel lontano 1979. Erano già nel futuro Newman e soci, e oggi il fascino indecifrabile di “154” non è più replicabile nell’era delle microrivoluzioni sociali su Facebook. Però i ragazzi del Settantasette sono ancora tra noi, e non è una cattiva notizia.

V Voti

Voto degli utenti: 7/10 in media su 12 voti.
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Teo 7/10
giank 7/10
Noi! 4/10
REBBY 7/10

C Commenti

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ozzy(d) (ha votato 8 questo disco) alle 11:43 del 20 marzo 2011 ha scritto:

Ottimo ritorno, "moreover" davvero da sballo, epilettica e "granitica". Questi hanno una carriera immacolata quanto la serie di derby di Reja ghghgh

Emiliano (ha votato 8 questo disco) alle 12:06 del 24 marzo 2011 ha scritto:

Un altro bel disco dei Wire, per giunta meglio del precedente...che golosità! Sempre e comunque livello altissimo.

REBBY (ha votato 7 questo disco) alle 18:22 del 9 maggio 2011 ha scritto:

Dice bene Daniele nella sua bella recensione: "i ragazzi del '77 sono ancora tra noi e non è una cattiva notizia" eheh. Please take, Adapt, Clay, Down to this e Red barked trees ("la loro personale versione dei Pentagle", che io sento invero molto barrettiana!) sono dei brani davvero molto gustosi per il mio palato.