Voices Of Black
Plastic Dolls
Come si deve interpretare un prodotto artistico quando offre una netta discordanza tra intenzioni e risultati? Se presupponiamo la "padronanza totale" da parte dell’ideatore dell'opera, è dunque lo stesso artista che volutamente ci sta depistando, instradandoci verso un illusorio regno di Oz che poi ha disatteso nei fatti?
L'ipotesi è plausibile e si fonda su quello stesso inganno, sottinteso dalla complicità fra ascoltatore e musicista, che spesso regola, tacitamente, le dinamiche di fruizione della popular music. Ma forse la vera risposta è un'altra: un'opera non è altro che un involucro di contenuti atti a molteplici interpretazioni, che il fruitore riempe di significati adattandola a sé stesso. L’ascoltatore ha in realtà un ruolo più attivo di quanto non sembri, e l'arte offre sempre la possibilità di andare oltre l'aspetto prettamente empirico, consentendo ai soggetti coinvolti di raggiungere consapevolezze differenti e "soggettive" (nell'accezione più autorevole del termine).
Prendiamo questo Plastic Dolls, che nasce dalla passione innamorata per una diva della moda: esiste qualcosa di più innocentemente (e falsamente) fanciullesco? Per i due "fashion victim" Babatunde Doherty e Julian Randolph (titolari del progetto Voices Of Black) evidentemente no, e nelle interviste ci tengono a ribadire il candore da pischelli che li ha guidati nel teorizzare e registrare l’album. Pare infatti che l’ispirazione sia nata mentre guardavano ad audio spento un'intervista su una fashion tv alla modella Ana Beatriz Barros, e da lì l'idea di fare un album che le somigliasse, che rispecchiasse la sua bellezza: un album capace di racchiudere, nella sua essenza deep-house, l’innocenza di due ragazzini che sognano ad occhi aperti, inventandosi una wonderland fatta di sfilate, party esclusivi, paillettes sgargianti, "barbie girls" mozzafiato.
Ad una prima lettura, numerosi sono gli elementi che potrebbero indurci a concordare con i due sbarbatelli: i ritratti di Mr. Fingers e Moodyman belli appesi alla parete; campioni vocali navigati in ogni dove (Waiting Outside su tutte); occasionali synth "made in Detroit" (Klossy, Le Fuzze), quando non devoti alla frivolezza french touch (Disco Jackie, degna dei Cassius); bleep e bassi elettronici divenuti ormai residenti abituali delle piste notturne (Downtown Rain e Drinks On Me).
Sembrerebbe tutto molto "fun", sofisticato, in linea con le produzioni Wolf + Lamb già pervenute. Poi però ascolti meglio, assorbi certe persistenze uditive, ed ecco che compare il volto oscuro dell'album, lo sconcerto nel vedere il longilineo corpo deep house infettarsi di concetti come "malattia" e "decadimento": un collasso delle strutture (a volte il mixing va leggermente fuori fase e i campionamenti quasi collidono con le ritmiche, invece di legarsi simbioticamente ad esse) che ha dell'unico, quasi un germe di paranoia electroclash addizionato gradualmente al punch analcolico della festicciola.
E così ogni delicatezza si contende la scena con la sua nemesi. Per ogni Brown Eyed Girl (sample da Your Daddy Loves You dell'ahimé compianto Gil Scott-Heron) che ci ammalia di dolcezza, c’è una Loft Rooftop che ci chiude a doppia mandata in una stanzetta con le pareti imbottite, fra synth tagliuzzati a mò di strisce di coca, maglie sonore sgranate e alienante brusio di fondo. Per ogni genuinità dancey (I Tried To Love) ci sono frammenti come I-95 (Escaping The Fraud) o Greenleaf In The Heart che parlano una lingua decadente, disarticolata, impraticabile. Una dicotomia che la produzione, colma di loop ritmici che vanno e vengono, rende fonte di dis(c)orientamento percettivo: tracce come Models In Elevators o Shade suonano come un updating dei lavori più spacey di Patrick Adams aka "The guru of underground disco".
I Voices Of Black flirtano con un immaginario patinato di cui viene percepita – forse a livello subliminale, stante l'inconsapevolezza (presunta, ovvio) dei due performer – l'artificialità corrotta, quella sfumatura di maligno che incrina un'istantanea altrimenti tutta sorrisi. Pare di trovarsi di fronte alle tele di Rodgers Terry: enormi, iperrealistici affreschi corali di brulicante ed effimera umanità, che nascondono con cartongesso glamour una soffitta di solitudine, malinconia, insoddisfazione (la dark side di quella che, nei lontani '50s, si sarebbe definita "Dolce Vita"). Conflitto fra opposti (innocenza/corruzione, desiderio di contatto/solitudine nella folla, apparente libertà/prigionia in una gabbia dorata) che, come in Plastic Dolls, è evidenziato dai dettagli: le ossa sempre ben visibili, quegli sguardi sempre turbati, le nudità tanto manifeste quanto prive di carica erotica, quelle vene fin troppo evidenti, il senso di eccesso mai esplicitato ma che ti entra sottopelle.
Al pari di quelle immagini, i suoni di questo disco non vogliono saperne di disfarsi di te: ti si depositano sotto le unghie, e tu poco a poco abiti le loro stanze affollate, le loro vite sformate. Mica male per un'opera prima. Promettono grandi cose, questi due twenty something. Alcune delle quali non si realizzeranno mai e sarà bello così, perché vorrà dire che la musica, ancora una volta, l'avrà vinta su chi tenta di impossessarsene. Tiè.
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