SBTRKT
SBTRKT
Schiacci play ed ha inizio una giostra fatta di specchi e riflessi taglienti, in cui i generi non esistono più ma a dominare è una materia amorfa che si increspa e si contorce per l'effetto di inquiete forze sottocutanee. Tutto per mano dell'ennesimo producer nascosto dietro a una maschera di anonimato, una moda che a volte ritorna da anni, da Burial ad Arandel passando per Zomby e Redshape. Ma che stavolta non è durata neanche un ciclo lunare, dato che già da un po' ne è stata appurata l'identità (mal)celata: SBTRKT è Aaron Jerome, uno che in passato è stato capace di curare il proprio feeling downtempo sfumato nu-jazz - culminato nel 2007 in Time To Rearrange - senza per questo dimenticare le proprie fondamenta dance (fatte di Leftfield, Xpress-2 e Daft Punk) e l'infatuazione tutt'altro che fugace per il garage britannico (basta guardare ai beat soffusi del 2020 EP di avantieri).
Il renaming porta con sé la rinascita sotto nuove sembianze, con uno stile che abbraccia tanto di quel materiale da perdersi nelle accezioni e soprattutto nei prefissi. Non è esattamente UK dance, né garage né funky, o meglio è entrambe le cose. Ma non è post-dubstep. O lo è nella misura in cui il dubstep non è più stile definito ma un modo di pensare l'approccio compositivo. È imprinting soul, quello fatto di (sotto)vuoti da apnea rubati a James Blake, ma è anche quel mood jazzato classic che sappiamo (o sapevamo) bene. Se proprio dobbiamo stabilire il punto di partenza però, la direzione scommette 50 cents sull'r'n'b: quello che in tutto l'album viene stirato e allungato fino al punto di rottura (che non c'è), e che soprattutto nella prima metà dell'album (già, l'album) diventa terreno di conquista per i lamenti soul di Hold On (e di colpo Jamie Woon lo si ricorda vagamente come un ragazzino imbranato) o gli abissi bass-step di Wildfire (le meraviglie neo-emotion dei Little Dragon disegnate sulle pareti umide di casa Zomby).
Pensare dubstep nella sua era post-, fare dance mentre tutto intorno il palazzo crolla e il funky è solo il fumo che nasconde la console: tutto questo vale solo metà di una Sanctuary. Vero è che la seconda parte del disco si rilassa anche su linee più classiche (non per questo meno affascinanti, vedi Never Never e Something Goes Right), ma son sempre schegge di cristallo quelle che in Ready Set Loop incidono con un taglio trasversale le ambizioni clubbing e stepping di un dj londinese. E senza dimenticare un paio di attesi guizzi future-garage, coi '90 assorbiti e rimodellati dentro Right Thing To Do e soprattutto Pharaos, gemma di classico modernariato che sente la UK fashion davanti agli occhi e Katy B dietro l'angolo. Non c'è trucco e non c'è uno schema predeterminato, ma solo la voglia di spassarsela senza limiti in una scena, quella d'oltremanica, fatta di gente che non chiede serietà o rigore tecnico, ma pura anarchia espressiva: da una terra che ha ormai abbattuto ogni barriera arriva l'ennesimo disco di livello superiore, e se proprio avete bisogno di un'etichetta da affibbiargli, mettetelo sotto la voce "UK orgasms".
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