Hedvig Mollestad
Ekhidna
Era già da qualche tempo che la straordinaria chitarrista norvegese Hedvig Mollestad meditava di svincolarsi, almeno momentaneamente, dal classico formato del power trio con il quale in un decennio scarso aveva firmato ben cinque dischi (e un live), ponendo le basi per una seria ristrutturazione della sintassi hard rock in direzione di un suono che incorporasse elementi funzionali neo-prog e tratti distintivi jazz. Come unico reale punto di partenza, una sorta di personale feticismo: una formazione allargata (duplicata, alla fine dei conti) in cui lassenza del basso venisse compensata dallintreccio di almeno due Fender Rhodes. Loccasione perfetta per concretizzare il progetto si è presentata nellaprile del 2019, alledizione annuale alledizione del VossaJazz Festival: chiamando a sé i tastieristi Erlend Slettevoll e Marte Eberson, il sempre devastante Torstein Lofthus (Elephant9, Shining, Chrome Hill, Mumpbeak, Red Kite ) dietro le pelli, Ole Mofjell alle percussioni e Susana Santos Silva alla tromba (recentissimamente riascoltata nel sontuoso Actions della Fire! Orchestra), Hedvig ha avuto modo di articolare per la prima volta dal vivo i movimenti che, oggi, compongono la tracklist di Ekhidna, considerabile in tutti i sensi suo secondo esordio artistico.
Le qualità che contraddistinguono da sempre il polimorfico stile della Mollestad la capacità di scrivere riff memorabili e immediatamente memorizzabili, la tensione verso la creazione di armonie complesse eppure sideralmente lontane dalla cerebralità raggiungono in Ekhidna il proprio apice indiscusso. Chiunque volesse un esempio pratico di come possono suonare nel 2020 le jam hard rock al massimo della loro creatività non ha che da lasciarsi trascinare dal tocco della bandleader, che tramuta in autentica materia lavica astrazioni teoriche di strabordante impatto e varietà persino imbarazzante. Dopo il teso, pittorico dialogo dark jazz per chitarra e tromba in No Friends But The Mountains (un prologo che è tutto un programma), irrompe sulla scena il fragoroso incipit sabbathiano di A Stones Throw, un tuono doom lesto ad evolversi in unelaborata frase di profondità orchestrale che sposa fra loro gli imprevedibili funambolismi di McLaughlin e la possenza degli ultimi Motorpsycho: Lofthus e Mofjell riducono poi in poltiglia il solismo davisiano di Slettevoll ed Eberson, erigendo un backup ritmico di potenza spaventosa. La barra si alza ulteriormente con la successiva Antilone, un indiavolato boogie che geometrizza le epiche cavalcate dei Maiden ottantiani con maniacale precisione frippiana: a rimanere integra è una guizzante serpentina jazz rock che gioca a nascondersi tra le pieghe di unimprovvisazione dionisiaca, brandelli miastenici di hard-jazz centrifugati in unorgia percussionistica dal retrogusto beffardamente latin (i Los Cubanos Postizos affondati senza pietà dai Jü di Summa? Bingo!). Un tale sfoggio di fisicità richiede il proprio tributo di sangue, qui materializzatosi sotto forma di unobliqua e selenica ballata, Slightly Lighter, che sembra uscita da uno degli ultimi dischi del quartetto di Cuong Vu con Bill Frisell in formazione: un episodio mozzafiato. È solo da qui in avanti che Ekhidna comincia leggermente a calare: ottimo è ancora il vigoroso stoner evoluto della title track, intarsiato dagli esplosivi fraseggi in libertà della Santos Silva e penalizzato semmai da una centrale decostruzione tastieristica un po troppo volitiva, ma One Leaf Left che pure inizialmente sviluppa con coerente gradualità una bella intuizione di tenue melodismo à la Jaga Jazzist viene chiusa con frettolosità anticlimatica dal ruvido solismo acido della Mollestad.
Nella sindacabilissima scala di giudizio di chi scrive, questo scivolone finale costa mezzo voto. Motivo per cui la valutazione conclusiva effettivamente assegnata dovrebbe far riflettere, se non tutti almeno i più curiosi, sulla qualità del disco in esame. Miglior prova di sempre per Hedvig Mollestad e tra le uscite più interessanti del primo semestre di questo sciagurato 2020.
Tweet