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R Recensione

7,5/10

Killing Joke

Pylon

Il mondo si sa è un vampiro avido e gretto, un chupacabra virale che ti succhia il sangue fino a spolparti le ossa. Uno come Jaz Coleman nel mondo in deliquio del 2015 ci sguazza e ha il suo perché. Jaz è quello che si dice un lucido, razionale teorico dell’immanente Apocalisse sempre più sul crinale dell’abisso socio-economico. Devastazione ambientale, autismo tecnologico, oscurantismo religioso, le scie chimiche rilasciate nell’atmosfera dalla coppia Kanye West-Kim Kardashian sono tutte piaghe che la vecchia pellaccia post-punk aveva previsto un mucchio di tempo fa. Lui già sapeva dove saremmo andati a parare. Ciechi e fessi noi a far finta di niente,  schiavi senza occhiali di un narcotico ma reale "Essi Vivono" carpenteriano.

“Micro-wave tower satellite masts…On the skyline the pylons of death pulse low frequencies to all terrestrial life modulating our reality…”

La prima cosa che ho notato sul jewel box di “Pylon” (a parte una copertina azteco/millenarista/hi-tech di raro e sublime kitsch pseudo-metallaro: noi ciechi e fessi ti vogliamo bene anche per questi piccoli e vincolanti dettagli, Jaz) era un simpatico sticker rosso con sopra scritto “sometimes music makes the world seem a better, brighter place, a secure environment full of solace, joy & child-like wonder…but this is Killing Joke…so f**k that”. Ovvero come spiegare i Killing Joke, in 130 caratteri, a un decenne orfano di rock che se la tira con Fedez, oppure (caso socialmente più estremo) al Gasparri che tweetta invasato contro il povero puffo brontolone. Immagino il beffardo ghigno dei Nostri nel vergare cotanto mirabile biglietto di presentazione: senza ascoltare una sola nota dei suoi cinquantasette minuti “Pylon” aveva comunque stabilito una fortissima empatia con il lobo occipitale del sottoscritto, e c’era questa vocina che mi ripeteva incipiente “siamo i Killing Joke, bellezza! Gli stessi Killing Joke che in piena osmosi post-punk diventavano basilari prototipi del crossover industrial/metal e perciò di una bella fetta dell’alternative rock deflagrato nelle classifiche lungo i magnificamente dispersivi ’90”. Quell’adesivo sembrava parlarmi molto confidenzialmente, sicuro di far breccia solcando il mio cuore nostalgico e disilluso…”Fidati”, continuava la solita vocina stridula da incubo Lynch, “siamo sempre noi, lo Scherzo Assassino di album zeitgeist come la celebrata pietra angolare del settembre ’80.” Gli stessi della wave-synthetica prima del Muro preso a picconate (“Night Time”, prodotto presso gli Hansa Tonstudios, 1985) e della non meno imitata creatura heavy/noise/industrial del 1990 “Extremities, Dirt And Various Repressed Emotions”. Perché capita solo ai veri pionieri di scrutare dritto in faccia il Futuro, sporgersi sul ciglio del dirupo spazio-temporale e sputarci dentro senza alcuna timorosa esitazione.  

“Closing in on the eastern border…It´s a unicentric one world order with sinorussian capitulation…It´s an orchestrated end of nations.”

Vi chiederete: cosa può aggiungere questo quindicesimo lavoro in studio all’ultra-trentennale, (in)sana, schizofrenia creativa marchiata KJ? “Distorted music, my war surrogate” direbbero loro. Un muoversi a latere che suona però ineffabilmente ispirato e contemporaneo, coerente con l’evolversi dello storico progetto avviato al tramonto del decennio settantiano. Era infatti l’autunno del 1978 quando, in quel di Notting Hill, gli ex Mataya Clifford “Big” Paul Ferguson e Jeremy Jaz Coleman da Cheltenham reclutavano attraverso un annuncio su Melody Maker il chitarrista Kevin “Geordie” Walker e Martin “Youth” Glover al basso (rimpiazzato nell’83 dal grande e compianto Paul Raven per dedicarsi a una discreta carriera di produttore, tornerà membro ufficiale dal 2008) con l’obiettivo di definire “la squisita bellezza dell'era atomica in termini di stile, suono e forma” attraverso un dinamico quartetto ispirato alle gesta soniche di Stooges, Pere Ubu e Joy Division. Oggi “Pylon” è nient’altro che l’ennesimo prezioso tassello di una storia tornata prepotentemente viva e pulsante allo scoccare del Duemila, rinvigorita dal rigurgito metallico di “Hosannas From The Basements Of Hell”, intransigente, furioso e massiccio alla stregua di un panzer lanciato a folle velocità sul nemico (toh il capitalismo, lontana ossessione del leader), e dalla riuscita rielaborazione delle molte anime Killing Joke presenti nel più recente “MMXII”. Il timbro di Coleman, innanzitutto. Rispetto agli album citati certi excursus vocali tendenti al growl restano delimitati al coriaceo mulinare di “New Cold War”, a una “War On Freedom” così tragicamente attuale in tribolati giorni di califfati neri e bombe su Raqqa, allo sferragliare possente del singolo “I Am The Virus” (quasi una rimasticatura in tema “Pole Shift” ma al netto di grandeur epica e grassi synth da action anni Ottanta, quindi perfetta). Coleman stavolta declama spesso su toni ieratici, vecchio profeta di prossime apocalissi che riportano al glorioso periodo di metà Eighties, quello ad altezza di “Brighter Than A Thousand Suns” per intenderci.

“Fragmented communities staring at their screens in silence, everyone´s hooked on online porn…All the people indifferent to torture. The media gives the thumbs up to the Gaza slaughter…Shallow no attention span, no empathy for the common man…”

Registrato nel Worchestershire e nell’amata Praga “Pylon” conferma con classe e autorevolezza la lezione di questi abili maestri, plasmatori di un metamorfo genere emulato e riassemblato da allievi quali Ministry, Soundgarden, Jane’s Addiction e Nine Inch Nails. La vorticosa intro di “Autonomous Zone” (il minutaggio della tracklist oltrepassa sovente i sei minuti) poggia il drumming tribale del metronomo Ferguson a radioattive scorie electro-glitch, con le proverbiali staffilate di un Geordie in gran spolvero a menar le danze. Riff adamantini che s’innestano poi chirurgici nella ferocia umorale di “Dawn Of The Hive” e “New Jerusalem”. La lirica ”Big Buzz” potrebbe rivelarsi una moderna “The Pandys Are Coming” (dal misconosciuto benché oltremodo influente “Revelations”, 1982) che guadagna in stile e sfumature innodiche ciò che perde fatalmente in urgenza. Nei testi, dal surriscaldamento terrestre al Grande Fratello Macchina leitmotiv di “MMXII”, è un intrecciarsi cupo di “misery lies”, “smoke, fuck and joke”, “dark phantoms of the past”, “brainwashed Britain”, guerre fredde mai davvero criogenizzate dal tempo, guerre di religione in luogo di nuove Gerusalemme liberate e ricerca dello sconosciuto, dell’invisibile umano (l’adrenalinico assalto finale “Into The Unknown”). Un noto drammaturgo dublinese del ventesimo secolo diceva che “l’uomo razionale adatta se stesso al mondo, quello irrazionale insiste nel cercare di adattare il mondo a se stesso…così il progresso dipende dagli uomini irrazionali.” Dell’uomo razionale Jaz ti puoi fidare. Più del poser fatalista Gioacchino da Fiore e del solenne bluff Maya. Del resto fidarsi di un tipo dai bulbi oculari costantemente in default, ordinato prete presso una chiesa in Nuova Zelanda e con lunghi studi di Classica alle spalle (un nuovo Mahler (!) secondo Klaus Tennstedt), è un obbligo. Bisognerà solo verificare i tempi e modi dell’estinzione che verrà. Pioggia acida o mutua distruzione assicurata? Eruzione supermassiva o glaciazione globale? Donald Trump o fottuto impatto asteroidale? Nell’attesa stima immutata per chi, trentaquattro anni fa, annunciava la Fine da uno sperduto eremo islandese in culo al mondo. E lunga, lunghissima vita ai quattro gagliardi under 60 del pregevole “Pylon”.

“While you pay their taxes you pay their debt…You buy their bombs and you buy into death. Cabals central banks self elected elite delete…”

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Paolo Nuzzi alle 15:44 del 29 febbraio 2016 ha scritto:

Che gruppo immenso. Non ho ancora avuto modo di ascoltare, ma lo farò presto, grazie alla tua recensione. Bravo!