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R Recensione

6/10

American Football

LP2

Strange how these city streets have changed faces / Like we did / Would you even know me if time hadn’t stolen me? / If I wasn’t afraid to say what I need?

Suona strano a dirsi, specie alle orecchie di chi – per sprezzo o troppa diffidenza – ha concesso a “LP2” non più di una manciata di fuggevoli, ipercritici ascolti. Travolti da quel clamore di riflesso che è cifra distintiva dell’epoca contemporanea, tuttavia, gli American Football sono davvero cambiati: oltre le chitarre squillanti, le dissolvenze jazzate, i tormentati languori emocore. Il s/t iconico (a posteriori) del 1999 fu l’unico, folgorante squillo di una band che era morta prima ancora di nascere, ponendosi dunque più come testimonianza di uno stato di cose la cui evoluzione prospettiva era quasi più interessante della stretta attualità. Diciassette anni dopo, i quattro poco-più-che-ventenni, ora uomini compiutamente adulti (e di successo: Tim Kinsella come anima di Owls, Owen e Joan Of Arc, Steve Lamos è diventato associato di tecniche di scrittura e retorica alla University of Chicago Boulder), hanno deciso di riesumare quell’avventura per il gusto di farlo, per poter offrire al mondo una testimonianza reale (e non storica) delle dinamiche del gruppo e per poter rimpolpare le setlist sempre uguali dei concerti di comeback. È, dunque, uno sguardo dall’interno quello che gli American Football lanciano a sé stessi: una profonda autoanalisi che muove dall’iconografia (sulla cover è raffigurato l’interno di quella tipica casetta americana la cui facciata spiccava sulla copertina dell’esordio) e procede, spedita, lungo il riassestamento e l’aggiornamento delle coordinate del proprio suono.

Non inganni la perentorietà del tono. Le conclusioni qui tratte seguono un minuzioso percorso di dissezione del disco che, inevitabilmente, passa attraverso diverse fasi di giudizio, ben lontane dall’essere tutte positive. Tornare sulle scene con una band così significativa, dopo così tanto tempo, espone il fianco a critiche finanche virulente, come quelle che – con la puntualità di una cartella esattoriale – sono difatti fioccate altrove. Una loro non marginale parte, sottolineiamo, è perfettamente giustificata. Vero, gli American Football non sono mai stati dei paladini dell’eterogeneità stilistica (se osserviamo il s/t del 1999 dalla prospettiva del dinamismo intrinseco dei brani, le somme conclusive saranno impietose), ma “LP2” è, effettivamente, un album monocorde, perennemente settato su velocità midi e su di un mood introspettivo che – sebbene diluito in una sola quarantina di minuti – mostra più volte la corda. Per quanto irrituale, qualche sferzata elettrica aggiuntiva avrebbe potuto marcare la differenza. C’è, poi, la grande questione della voce di Kinsella, impostata su di un vibrato melodrammatico che tende a dilatare gli spazi e a caricare di peso specifico ogni passaggio. È una scelta che non calza con la dimensione, raccolta, degli American Football: un eccesso di teatralità scenica e bel canto (autoreferenziale, a dirla tutta, specialmente negli attacchi ascendenti di strofa, indistinguibili l’uno dall’altro) che stride terribilmente con il contesto ed appesantisce inutilmente l’ascolto: in questo, la parziale eccezione di “Desire Gets In The Way” (il cui vigoroso, chirurgico incipit scuote la narcolessia indotta degli arpeggi chitarristici) non fa altro che confermare la tendenza.

In superficie, poi, tutto sembra apparentemente immutabile: vi sono gli stessi twang, le stesse cesure ritmiche, le stesse melodie ondivaghe e malinconiche, gli stessi inserti di tromba, le stesse digressioni strumentali in cui le chitarre si cercano e si rispondono a tono. Il dejà senti non può che rafforzarsi al captare evidenti similitudini con il passato (lo stacco di batteria, poco oltre la metà di “Born To Lose”, che cita esplicitamente quello di “Stay Home”) o, addirittura, con il presente (il giro iniziale di “Everyone Is Dressed Up”, una riscrittura in tapping di quello, elegantissimo, della stessa “Born To Lose”). Chi è cresciuto ascoltando dischi del genere, tuttavia, sa bene che quasi mai il significante superficiale corrisponde al significato profondo: e a scandagliare la sostanza intima dei pezzi, difatti, ci si rende facilmente conto della pronunciata specificità di “LP2”. Una specificità fatta, anzitutto, di suoni che citano i Noughties senza riprodurli pedissequamente: si prendano le microfratture della texture di “Give Me The Gun”, le cui fila vengono tessute da un serrato scambio math-funk ingentilito da un mellotron crepuscolare, o la sontuosa ouverture slowcore in crescendo – con chitarre profondissime, umorali – che accende la miccia di “I Need A Drink (Or Two, Or Three)”, la migliore del lotto. L’eredità storica è perfettamente distinguibile accanto al suo ammodernamento: così che “My Instincts Are The Enemy”, prima ancora che diaristica emo di fattura sartoriale, si avvicina all’art pop puntinistico e variopinto di band come The Heartbreaks (ma senza, naturalmente, la tronfia e roboante pomposità di quell’approccio) e, per discendenza genetica, ai Blueboy e agli Smiths (in una “Home Is Where The Haunt Is”, sorretta da un bel fingerpicking oweniano, dove fanno addirittura capolino timide pennellate twee pop).

I’ve Been So Lost For So Long” è il titolo del singolo con cui gli American Football hanno ufficializzato al mondo il loro ritorno discografico: un nome che è tutto un programma e che coincide, inevitabilmente, con il brano-nostalgia di “LP2”, un didascalico post-math-emo rock percorso da sottili cambi di tempo e da una ritmica insolitamente diretta (non esattamente il miglior modulo per un pezzo di questo tipo, a nostro avviso). La tentazione di condensare tutto il senso del ritorno degli American Football in questo slogan, lo ammettiamo, è forte. Ma non sarebbe giusto, né veritiero. Pur imperfetto e prevedibile, “LP2” è un disco onesto: visto quanto successo in casi simili (Refused?), tanto basta.

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