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R Recensione

7/10

Bottega Baltazar

Sulla Testa Dell'Elefante

Sono, nell’intimo, fortemente neoplatonico: credo in una connessione profonda tra significante e significato che vada oltre la doppia articolazione e l’arbitrarietà del segno linguistico, di modo che una modifica dell’uno non possa non portare, conseguentemente, al cambiamento dell’altro. Non è certo un caso che la rinnovata Bottega Baltazar, una delle poche autentiche istituzioni del Triveneto in note scampata alla furia del leghismo e del cemento, perso per strada quel “piccola” che ne ha marcato i capitoli discografici sino a “Ladro Di Rose” (2010), consegni oggi, dopo un inusitato silenzio studio (intervallato solamente dalla soundtrack de La Prima Neve, di Andrea Segre), il suo lavoro più ambizioso ed onnivoro – da intendersi in entrambe le direzioni: musicali e testuali. Paradossale anziché no, dal momento che i dieci brani di “Sulla Testa Dell’Elefante” non nascono in un pulsante hub newyorchese o in una frenetica metropoli del Terzo Mondo: sono, piuttosto, il riflesso di un periodo di ritiro – non del tutto idilliaco, sembra – sul monte Summano, nella zona delle Prealpi vicentine.

Anche la geografia, oltre all’onomastica, può influenzare significativamente l’immaginario di una canzone. Con l’essenziale bagaglio di informazioni qui sopra fornite, il richiamo immediatamente prospiciente è quello della toccante ballata acustica “Osteria All’Antico Termine”, un dialogo leopardiano tra l’alter ego di Giorgio Gobbo e un alpino morto sul confine nella guerra del ’15-’18: un episodio di assoluto e raffinato lirismo, in cui l’impasto strumentale sembra impennarsi solo sul finale, salvo poi sgretolarsi in un lamento per fisarmonica che richiama alla mente i DAAU. D’umore radicalmente antitetico è il pezzo che segue a breve distanza, “La Smortina Innamorata”: su di una curiosa scansione ritmica, che a due 4/4 abbina un 6/4 (l’impressione di danza popolare è bell’e confezionata), nasce uno scorcio di vivissima e carnascialesca narrazione à la Decemberists, per due voci – quella femminile è di Laura Gentilin –, ravvivata dall’aggiunta della tromba e del flicorno di Gabriele Mitelli. In “Sora Del Mont”, la lingua si trasfigura in un esperanto dialettale, mentre le chitarre riecheggiano da dietro un velo di riverbero neopsichedelico (Loop e Mercury Rev prima ancora degli amati Floyd) e il theremin dell’ospite Vincenzo Vasi cala, in fitte nebbie misteriche, su di una coda strumentale un filo troppo lunga. “Venite Adoremus” rielabora, per l’ennesima volta, il rosario laico deandreiano, applicandolo alle spinose tematiche dell’immigrazione e dell’accoglienza: a differenza della vecchia “Nostra Signora Delle Antenne”, tuttavia, l’epica ricorsiva e quasi dylaniana del testo si rifrange su un gorgo claustrofobico di chitarre ed ottoni (il sax tenore di Riccardo Marogna).

È da questi dettagli che si intuisce la dimensione potenzialmente internazionale del disco che, anche nei provincialismi più pervicacemente difesi (la conclusiva “Foresto Casa Mia”, acuto ribaltamento della chincaglieria leghista affidato, quasi esclusivamente, a voce e pianoforte) e nei vezzi di fabbrica (“Bussarti Alla Finestra Con La Neve” starebbe bene in mano ad un Alessandro Grazian), si riscopre insolitamente maturo. E se anche tutto non convince ugualmente (chi scrive non è riuscito ad entrare in feeling col solido pop rock di “Rugby Di Periferia”, che ha molti punti in comune con gli ultimi Coldplay) non c’è pericolo di accontentarsi, né di cercare col lumicino gli aspetti positivi. Per molti, ne sono certo, basteranno anche i quattro minuti e mezzo di “A Colloquio Con I Nembi”, arrangiati col gusto folcloristico di un Capossela, ma interpretati con la delicatezza del cantautorato d’oltremanica (il falsetto di Gobbo potrebbe ricordare Damien Rice).

Insomma: prima ancora che a me, date retta a Platone.

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