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R Recensione

7/10

Il Sogno Del Marinaio

Canto Secondo

Non poteva non colpire la mia attenzione, quella foto che campeggiava sulla pagina Facebook ufficiale de Il Sogno Del Marinaio. Vi si vedono Mike Watt, Stefano Pilia e Andrea Belfi che, in un day off dal loro tour americano, si recano alla casa natale di John Coltrane, come una scolaresca troppo cresciuta che non ha ancora finito di stupirsi di fronte alle meraviglie della vita: e giù di diari fotografici, condivisioni, commenti, selfie. Giganti che omaggiano giganti più grandi di loro con un’ossequiosa riverenza che ci si aspetterebbe da un pugno di sbarbatelli (che sono invece, nemmeno troppo paradossalmente, i più irrispettosi a tal proposito) e non dal bassista storico di Minutemen, fIREHOSE e Floored By Four, da uno dei chitarristi più prolifici dello Stivale (prego leggasi recensione su Cagna Schiumante per sintetico curriculum recente) e da un batterista, solista ambientale a tempo perso, che definire turnista-di-tutti è sminuente per lui e intrinsecamente peggiorativo. Del bicchiere ci ostineremo a vedere il mezzo pieno, che in questo caso non è simbolo di sola completezza, ma di tracimante ed incontenibile euforia creativa.

In “Canto Secondo”, sophomore del self titled uscito per Clenchedwrench un anno e mezzo fa, Il Sogno Del Marinaio accantona per un istante l’idea, pur pregevole, di un songwriting aperto a improvvisazioni ed aggiustamenti in tempo reale. I pezzi ora si asciugano, si moltiplicano, si rafforzano. Cambia la stessa prospettiva del gruppo: da piacevole incontro di menti eccelse a vero e proprio progetto su (almeno si spera) lungo termine. Voltare le spalle alla precarietà genetica dell’una tantum consente, per quanto possibile, di lavorare con maggiore costanza al disegno generale: il che, inutile sottolinearlo, è un balsamo medicamentoso e per la scrittura, e per l’ascolto. Ad incrociarsi non solo tre pedigree in buona misura divergenti, ma un ventaglio inesauribile di soluzioni musicali, un inedito melting pot linguistico (concorrono l’inglese dei reading canticchiati di Watt, il tedesco di Pilia, qualche dialettalismo criptotricolore in coro) ed una produzione, specificatamente lirica, che sa farsi realmente alternativa in ogni contesto.

Così, se vi parrà frivolo il trotto nella pampa in levare di “Stucazz?!!” (una “Punkinhead Ahoy!” interpretata dall’orchestrina epilettica di Carl Stalling), ci penseranno i dissonanti arpeggi su semitoni contigui di “Skinny Cat” a prendervi a schiaffi (il post rock sul punto di abbracciare il –core): similarmente, le minimali coccole psichedeliche di “Nanos’ Waltz” vengono bruscamente risvegliate da un mefitico carillon Henry Cow prima, da una vigorosa ripresa blues rock poi. Sono rari i casi in cui un brano finisce così com’è iniziato, strutturandosi come proiettile in moto rettilineo uniforme e non come corpo zigzagante: “Us In Their Land” arriva ad un passo dagli Shellac, con Pilia a trascinare carriaggi noise e Watt in ostinata oscillazione ottantiana, ma è piuttosto l’eclettismo di “Animal Farm Tango” (una marcia alt-rock abrasa da un chitarrismo polimorfico, acidissimo nel solismo e Nels Cline nel fraseggio) a rimanere impresso dopo svariati ascolti. Il marinaio dorme spesso, e le sue visioni oniriche portano la pentatonica nell’animo: interpretata variamente, s’intende, in maniera paesaggistica e decadente (“Auslander”), o in deliziosi arpeggiati Meat Puppets scossi da irresistibili groove (“Mountain Top”).

Godere di questi sogni, ammesso egoisticamente, è bellissimo. Non svegliate il poveretto, mai. 

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Marco_Biasio, autore, alle 16:19 del 15 ottobre 2017 ha scritto:

Visti ieri sera in concerto (Paolo Mongardi ha nel frattempo rimpiazzato Belfi). Un set di un'ora chiuso da una cover di fuoco di Fun House degli Stooges. Stupendi! Grande tecnica, grande cuore, grande passione. Mike Watt idolo assoluto, quarant'anni che suona per il mondo con formazioni della madonna e ancora ha una parola e una risata per ogni ascoltatore che passa a salutarlo. Cose che aprono il cuore.