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R Recensione

7/10

Bruce Lamont

Feral Songs For The Epic Decline

Da homo ferox a homo asceticus. Il fastoso epitalamio della progressiva spiritualizzazione che ha subito, nel corso degli anni, il nocciolo semovente e post-metallico dei grandiosi Yakuza, dalla gabbia metalcore dell’ormai lontano esordio “Amount To Nothing” alle pozze psichedeliche e contemplative del recente “Of Seismic Consequence”, viene qui gorgheggiato con l’esordio, sulla lunga distanza, del leader e sassofonista Bruce Lamont, personaggio di spicco della contaminata avanguardia metal after-2000 già delineata, qualche mese fa, in un nostro speciale. Tuttavia “Feral Songs For The Epic Decline”, più che mettere a nudo l’anima oscura, introspettiva e tribale del quartetto di Chicago, riesce ad acquisire un’anima ed un significato propri, relativamente svincolabili dal contesto della band madre ed ascrivibili, per la prima volta, alla pura sensibilità di Lamont, in un complicato batti e ribatti di influenze ed inevitabili citazioni.

Basta assaggiarlo anche solo a piccole dosi per rendersi conto che questo non è un disco facile, né nell’impostazione, né nel tipo di messaggio di cui si fa portavoce, né tantomeno nella miriade di stratificazioni sonore quasi impalpabili alle prime tornate. Non è facile – e qui abbandoneranno subito la china gli headbangers intransigenti – perché non v’è, in primo luogo, praticamente traccia dell’impatto e della forza titanica delle chitarre elettriche. Della rabbia pulsante e dolorosa scaricata dalle storte rasoiate del poliedrico Matt McClelland rimane un’eco, peraltro ancor più distorta, nei furibondi droni che straziano in due “Deconstructing Self Destruction” (i Fuck Buttons deprivati di costruzione melodica e caricati di cacofonia merzbowiana). Tutto il resto si basa sulle profondità della particolare voce di Lamont e su qualche altro sparuto elemento: chitarre acustiche, riverberi, delays, effettistica, sax. Non esattamente quel che si dice girare a vuoto. Sconvolgente è, ad esempio, lo squarcio di solitudine e malinconia aperto dalla pesante nebbia wave di “Year Without Summer”, che applica alla personalissima teogonia black un acuto misticismo interiore da songwriter post-apocalittico (lo stesso che risuona per la solenne e mantrica “One Who Stands On The Earth”, dodici minuti di preghiera zen che si innalza al cielo in volute psichedeliche).

È utile ricordare, a questo punto, che metà delle canzoni qui presenti sono state composte nell’estate 2006 e, solo successivamente, riprese ed ampliate da aggiunte posteriori risalenti al triennio 2007-2010. Gli indizi possono far ragionevolmente supporre che gli Yakuza difficilmente modificheranno in maniera così insistita il loro stile unico, non almeno sulla scorta di “Feral Songs For Epic Decline”. Sarebbe curioso vedere, però, come un gruppo di classica impostazione metal riuscirebbe a rendere, con un uso più ortodosso della strumentazione, le abissali lamentazioni di “Disgruntled Employer”, circondata da loop elettronici e fraseggi free jazz, o la sottile nenia ambient-droneThe Epic Decline”. Ne uscirebbe fuori un esperimento che potrebbe rilanciare ancora più in alto le già superbe quotazioni dell’intero nucleo. E Lamont, d’altro canto, non si risparmia: “2 Then The 3” è un fantastico canto del cigno che deforma un classico giro folk da trobadour con magnetico esoterismo bebop e paradossali scordature per armonica.

L’intellighenzia è viva e lotta assieme a noi: il declino epico può ancora attendere al suo posto, dietro la coda delle altre, inevitabili sfighe. La bellezza di queste canzoni ferali non ha trovato posto per avversari all'altezza.

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Voto degli utenti: 2/10 in media su 2 voti.
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