R Recensione

7/10

Planes Mistaken For Stars

Mercy

Io non avrei il coraggio di difendere costumi disonesti e di impugnare armi ingannatrici in difesa delle mie colpe;anzi, confesso, se confessare i miei peccati può in qualche modo giovare.

Ma ora, dopo la confessione, ricado come un insensato nelle mie colpe.

(Publio Ovidio Nasone)

Le metamorfosi possono essere considerate rappresentazioni di miracoli laici senza provvidenza o guida trascendente. Anche per questo motivo sono giunte fino a noi in tutto il loro nitore visivo ad impressionare l’esperienza del limite da parte dell’uomo occidentale, il suo bisogno di purificazione attraverso la conoscenza dell’altro da se e l’angoscia, l’ansia di misericordia che si prova di fronte a tutto ciò che resta inesprimibile. Così l’enargeia profusa da Ovidio nel suo poema, una volta percorso il solito astruso ma implacabile dedalo di discendenze e parentele, contribuisce a rendere esplicito ed accessibile lo stupito interesse nei confronti dell’ascensione spirituale e musicale maturato dai Planes Mistaken For Stars per giungere a questo loro ultimo imperfetto e figurativo Mercy.

Nato come esile quartetto “emo” o “screamo” o “pop-core” (continuate voi, io preferirei bruciare una volta per sempre il dizionario dei sinonimi...) sulla scia di gente come i Get up Kids (a modo loro pure bravini, eh, per carità di Dio!) durante il loro periodo d’apprendistato con la Deep Elm Records (1997-2000 all’incirca), il gruppo di Peoria, Illinois, si è lentamente ma costantemente convertito, nella caratura di due album di bruciante sincerità epistemologica ma di sopravvalutato esito artistico quali Fuck with fire (No Idea Records, 2003) e Up In The Guts (No Idea Records, 2004), ad un approccio sonoro roccioso ed estenuante, oscuro e spiazzante al punto da abbeverarsi alla fonte di generi apparentemente distanti fra loro come postcore, stoner e shoegazer.

Perchè, altrimenti, avrei scomodato la genesi letteraria di un termine quale “metamorfosi” se non per sottolineare l’ascetico quanto laico pellegrinaggio musicale di chi, abbandonate effusioni e carezze post-adolescenziali, si affida ora a nuovi, pesanti e coraggiosi utensili stilistici, semplici ed efficaci al tempo stesso, brandendoli con mani callose temprate dalla rabbia e dalla fatica spesa nell’itinerante ricerca della propria identità.

Da questo disco non aspettatevi miracolose, ipercinetiche evoluzioni muscolari alla Dillinger o abrasioni melodiche schizoidi tipo Poison, non cercate di mettere a fuoco coordinate formali precise o di formulare definizioni vertiginose e cristalline perchè i Planes suonano solamente come ciò che sanno e ciò che sono, principalmente come se stessi alle prese con il gioioso affanno della propria confusa ma orgogliosa gestalt musicale.

Pezzi quali Crooked Mile, Widow: a love song e Never Felt Prettier mettono sopratutto in risalto strategie belliche fin troppo chiuse nella loro fiera, sfrontata e frontale auto-difesa di un hardcore lento, ruvido e primigenio per essere scompaginate dalle deliziose digressioni tipiche del post-rock o del post-core, essi assomigliano piuttosto a schegge di vetro acuminate contro cui rimbalzano e riverberano i vocalizzi rugginosi di Gareth O’ Donnell che talora fanno tornare in mente l’asprezza proletaria da “Kitchen Sink” del caro vecchio Lemmy coi suoi Motorhead. L’ emo assume così connotazioni rarefatte e psichedeliche filtrando come un raggio di luna oltre le grate metalliche della prigione che le chitarre di Chuck French e dello stesso O’Donnell murano attorno ai giganteschi dislivelli di una pleistocenica sedimentazione ritmica (To Spit ASparrow, Keep Your Teeth, Killed By Killers Who Killed Each).

Little death, ad esempio, si dibatte straziata dal vibrato penetrante che ad una veglia funebre riecheggia sinistramente nelle orecchie di un cadavere ancora in vita, come in sogno ad occhi aperti o in un racconto di Landolfi. È un’opera forse volutamente in corso questa dei Planes, un progetto in cui non tutto sembra quadrare alla perfezione e in cui alla fine si può anche rimanere piacevolmente sorpresi dall’evincere che i due brani più riusciti, gli unici in definitiva davvero indimenticabili, siano stati posti in coda, uno dietro l’altro, parzialmente avulsi dal contesto generale, in un ideale abbraccio alla prossima metamorfosi estetica del gruppo, sorta di trait d’union per tutti gli anelli ancora in attesa di congiungersi.

La title track soffoca progressivamente , col clangore metallico delle sue distorsioni e la famelica voracità di una possente curvilinea ritmica in levare, una power ballad potenziale per cangiarla in un raga rivelatore, una terminale possessione sciamanica che mette l’ascoltatore in comunicazione con mondi sconosciuti o perduti chissà dove dentro di se.

Penitence, congedandoci da par suo, è addirittura un madrigale shoegaze completamente nudo ed acustico, il fossile carbonizzato di una dolcezza atavica bruciata insieme all’ossigeno che scongiura in vita l’ultima preghiera di un condannato nel silenzio che lo separa dal proprio castigo.

Resta solo la curiosità di vedere se, come prevedo, le pagine più belle per i Planes siano ancora tutte da scrivere, come e quando riusciranno, facendo tesoro dei preziosi prodromi e bozzetti disseminati in questo loro terzo disco, a dipingere il loro capolavoro. Come direbbe anche l’amico Dylan.

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