Amplifier
Insidier
Cambiare, nel mondo della musica, è sempre una buona cosa: tutti i gruppi che si sono guadagnati anche solo un piccolo spazio nella storia della musica hanno cambiato qualcosa di sé, nel corso della loro carriera. Altrimenti non si può più onestamente parlare di ricerca musicale, sia essa rivolta alla forma o ai contenuti. In molti non cambiano, dimostrando o di non averne le capacità, o di essere solo interessati a battere il ferro finché è caldo e continuare a guadagnare soldi una volta trovata magari per caso una formula più o meno efficace per vendere. Ma per fortuna sono molti ancora quelli che credono nella musica, e si battono di album in album per portare la loro personale ricerca musicale sempre più lontano.
E questo il caso degli Amplifier, terzetto di Manchester autore nel 2004 dellomonimo album di debutto, uno dei dischi più esplosivi del panorama rock alternativo di metà decade. La musica degli Amplifier è un mix tra i riff pesanti dei Black Sabbath e le cattedrali sonore dei God Machine, tra la potenza diretta degli Who, le atmosfere dei Pink Floyd e i ritornelli più acidi degli Zeppelin. A fare collante di tutto questo, la voce calda e suadente del chitarrista/cantante Sel Balamir, sopra ad un rullo compressore di distorsioni e flanger con il decay al massimo.
Ma tutto questo soprattutto nel primo album. I tre ragazzi inglesi ritornano nel 2006 con questo Insider, un album nel quale le costruzioni musicali si fanno decisamente più complesse, e si suona e canta di più. Già dallinizio, dalla strumentale Gustavs Arrival, è chiaro che i nostri hanno svoltato verso una dimensione più prog, più elaborata (non a caso i nostri sono stati opener nellultimo tour degli Opeth). Poi O Fortuna sembra annunciare senza mezzi termini che il miracolo è compiuto, e i tre sono riusciti a traghettare il loro sound verso questa nuova dimensione senza traumi.
Non è così, purtroppo, e lalbum inizia ben presto a farsi meno diretto, più cerebrale, e ogni tanto si avverte la sensazione che certi passaggi, certi groove, certi riff stiano insieme un po artificiosamente (R.I.P.), o che siano nettamente al di sotto della qualità delle composizioni del disco precedente (Elysian Gold, Hymn Of The Aten), e ne risente la godibilità generale del disco.
Per carità, diciamolo chiaramente: lalbum non è affatto brutto; soprattutto, si sente in ogni singola nota che i vecchi Amplifier sono sempre lì sotto. Ma sotto, appunto. Sotto troppe note, sotto troppi riff, sotto costruzioni che sembrano un po troppo calcolate a freddo per chi ci aveva abituato a spegnere il cervello e volare con la loro musica, lasciandoci trasportare in orbita da lunghi finali psichedelici o dalle lunghe, rumorose rullate di Matt Brobin.
Sono cambiati, dunque, gli Amplifier, e hanno fatto bene perché sono una grande band. Sono stati anche bravi a non snaturare il proprio sound, ma la loro ricerca compositiva ha preso in questo album una direzione più complicata, barocca, che ha ridotto di molto il potenziale emotivo delle loro canzoni, ad altissimo livello nelle loro precedenti realizzazioni.
Tweet