Meshuggah
Catch Thirtythree
Nella lingua yiddish la parola Meshuggah significa pazzo, e fu già Edgar Allan Poe a dire che non è chiaro se la follia sia o meno il grado più elevato dellintelletto, se tutto ciò che è profondo non nasca da una malattia della mente, da stati di esaltazione della mente a spese dellintelletto in generale. Fortunatamente, i Meshuggah sono pazzi per davvero.
Il gruppo svedese comincia a farsi sentire nel 1987, e si fa riconoscere da subito come buona band thrash metal nella quale è forte linfluenza dei Metallica di And Justice For All, prima di elaborare una personale proposta musicale con gli album successivi, tra i quali il capolavoro indiscusso rimane Destroy Erase Improve (1995). Poi, nel 2002, con luscita di Nothing qualcosa comincia ad incrinarsi, tutto comincia a diventare meno thrash, la simmetria delle canzoni si spezza a favore di una ciclicità di riff musicali che introducono una dimensione psichedelica-industrial nelle loro canzoni, dove lo spazio-tempo musicale viene di volta in volta dilatato o compresso e ci si muove come in stato di ipnosi, sotto il continuo bombardamento di riff pesantissimi. Questa direzione viene confermata nel 2004 con lep I, ununica traccia, 21 minuti di rullo compressore che distruggono, riplasmano e traghettano verso la nuova forma stilistica adottata dai Meshuggah le visioni biomeccaniche, la desolazione umana, la duplicità intrinseca nella condizione umana e tutti gli altri temi loro cari.
I Meshuggah affondano completamente il loro bisturi musicale nella psiche umana con Catch Thirtythree. Marten Hagstrom, chitarrista, in unintervista ha detto: volevamo fare un disco che non avesse nulla a che fare con il comune concetto di canzone, volevamo fare una sorta di soundtrack o una sinfonia classica. Ci sono riusciti eccome, ed ecco a voi 47 minuti di pura ipnosi musicale, ununica traccia divisa in tredici capitoli (ma solo per volontà della casa discografica) che costituiscono una sinfonia postmoderna sulla desolazione della condizione umana, il biglietto dingresso per un viaggio dentro la mente anche dentro la propria mente, dunque.
I ritmi si susseguono, così come accadeva in I, meccanicamente, ma si fanno ancora più storti, e luso di brevissime pause allinterno dei riff diventa lunico, istantaneo elemento divisorio di un ininterrotto flusso di paura, orrore, desolazione, dove spesso ricorre il bending come manifestazione musicale più evidente che neanche le singole note ormai possono più stare ferme al loro posto (The Paradoxical Spiral); la drum machine nel frattempo macina ritmi dispari a manetta, e leffetto suona come una sentenza di morte definitiva verso la simmetria e la regolarità, stati e condizioni che di questi tempi risultano inapplicabili alla psiche umana e quindi inutili come strumenti dindagine, anche in campo musicale. Lequilibrio è perduto e i Meshuggah lo sanno, non sono certo degli utopisti non tornerà.
Sopra a tutto questo Jens Kidman intona la sua litania esorcizzante, quasi a volerci proteggere e spiegarci tutta questa aggressività, fatta di una unica nota (lunica melodia vocale è ottenuta con il vocoder in Minds Mirrors), vestendo i panni di un moderno Caronte che di buon grado accetta di traghettarci e condurci lungo i gironi infernali della nostra stessa psiche, quei gironi infernali che probabilmente ci siamo dimenticati di avere proprio lì, appena un centimetro sotto quelle creazioni artificiali chiamate coscienza o buon senso.
Con buona pace dei fan affezionati ai vecchi Meshuggah, loriginalissima ricerca musicale del quintetto svedese è diventata ormai fonte di ispirazione anche per i più grandi (o, più probabilmente, solo per i più grandi, quelli che riescono a capire meglio): tra gli estimatori si contano Tool, The Dillinger Escape Plan, God Forbid, Fear Factory.
Un album che merita un solo aggettivo, tanta è la grandezza della sfida che i Meshuggah hanno posto e la novità che hanno portato: spaventoso. Calza alla perfezione.
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