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R Recensione

7,5/10

Lago Vostok

Ice Shit

Ventiquattro minuti, un minuto l’ora. Ventiquattro minuti che suonano come un’intera carriera. Ventiquattro buone ragioni (moltiplicate per ventiquattro?) per cullare nostalgicamente ciò che è stato, dolersi della sua cessazione e rimpiangere quello che, in prospettiva, sarebbe potuto diventare. I libri di storia assai difficilmente si ricorderanno del trio lecchese Lago Vostok, scioltosi nel 2016 a tre anni di distanza dal folgorante esordio “Decorso Infausto”: ma, come una grammatica normativa non ricomprende un intero sistema linguistico, anche gli annali non possono rendere conto dell’intero complesso di passioni e gusti di ogni singolo ascoltatore, e meno male. “Ice Shit”, registrato nell’estate 2016 in una sala prove nei dintorni di Merate, è e rimane un disco postumo: non vi sono piani (non, almeno, a noi noti) di risvegliare la band dall’ibernazione cui si è condannata. Questa è la ragione per cui, in ventiquattro minuti, il secondo lavoro fantasma dei Lago Vostok lascia così profondamente il segno: testimonianza perduta e poi ritrovata, scritta e fissata a titoli di coda già ultimati, con nessuna aspettativa di fronte e nessuna prospettiva alle spalle. Ventiquattro minuti di fuoco.

Difficile dire a cosa o a chi assomigliassero i Lago Vostok. “Dome C” prende da subito a sportellate in faccia con le dissonanze delle migliori occasioni (a tornare in mente, a proposito di hc evoluto, sono le distorsioni chimicamente trattate dei Lleroy), ma lo scambio strumentale centrale è sostenuto su pizzicati post rock dalla dimensione quasi jazzistica. La più lunga “Enigma Lake”, fra tam tam tribal-industriali e sample di contorno, reitera lo stesso giro doomish di basso in un fiorire di variazioni superficiali. Sulle forme ritmiche imprevedibili di “McMurdo”, la chitarra viaggia senza soluzione di continuità fra Karate e Shellac: una varietà d’approccio che, nell’urticante “Fossil Bluff”, sembra rifarsi alle rumorose strutture anarcoidi degli Io Monade Stanca. Il meglio arriva comunque alla fine: alla delicatezza cerebrale della sonatina polviana di “Antarctic Plateau” si oppone la violenza schizoide di “Cryobot”, costruita per accostamento aleatorio di singole note e soffocata in un indistinto chiaroscuro.

Tendo ad aborrire chi si prende certe libertà espressive, ma il fine, a volte, giustifica i mezzi: e questo mezzo voto in più nella valutazione finale è un esplicito invito a riconsiderare lo stop delle attività. Troppo prezioso, questo materiale, per essere semplicemente buttato nella mischia e non ulteriormente rielaborato!

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