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R Recensione

6,5/10

Melt Yourself Down

100% Yes

Prima che la BAM diventasse davvero la BAM, nel tutto sommato breve lasso di tempo in cui Shabaka Hutchings era ancora “solo” un membro in forza ad Heliocentrics e Sons Of Kemet e non il profeta di un nuovo modo di fare ed intendere il jazz contemporaneo, i talentuosi londinesi Melt Yourself Down godettero di una consistente onda di popolarità riflessa, quella che investe i giovani supergruppi sorti in anticipo rispetto al loro tempo. Non sorprendentemente, quasi stupisce ritrovarli oggi ben sette anni dopo l’incendiario esordio omonimo e a quattro di distanza dal degno successore “Last Evenings On Earth”: segno eloquente di quanto e quanto in fretta siano cambiati i tempi. Ad onore del vero sono cambiati parecchio anche i Melt Yourself Down che, dopo la fuoriuscita di Shabaka dalla line up, hanno progressivamente smarrito i connotati di formazione vera e propria, trasformandosi infine in un fluido insieme di musicisti riuniti attorno alla figura dell’estroso bandleader (e unico membro stabile) Pete Wareham. Questa spersonalizzazione si traduce concretamente nella disomogeneità qualitativa che affligge alla base la tracklist del terzo full length100% Yes” (il primo per Decca), disco affatto disprezzabile per quanto non all’altezza dei capitoli precedenti.

Mentre i nomi cardine della scena jazz londinese si muovono in direzione di una più decisa ibridazione fra tradizione bop e identità black, i Melt Yourself Down scelgono ancora una volta di nuotare controcorrente, giocando sul dimezzamento della sezione fiati (rimane al sax il solo Wareham, impegnato anche ai synth e alla produzione) e sull’inconsueto inserimento di una chitarra, suonata dal cantante Kushal Gaya (Zun Zun Egui). Le frequenze dello scatenato baccanale afro-jazz marchio di fabbrica del gruppo si colorano da subito di ruvidità più esplicitamente punk oriented: la scartavetrante e funambolica “Boot And Spleen” suona come degli The (International) Noise Conspiracy catturati nel vortice dei Sons Of Kemet, la successiva “This Is The Squeeze” inocula magnetismi ethio in un giro di basso funk forgiato nell’acciaio, laddove il selvaggio singolone “Crocodile” ribolle di fiammate afro-garage (ma attenzione al ritornello corale!) e “Chop Chop” è, sostanzialmente, un sanguigno r’n’r agghindato da ottoni funzionali. Scorie del recente passato riemergono con maggior nitidezza solamente in un paio di momenti: ad esempio, nel refrain quasi gospel in cui sfocia il rugginoso afro-bop – contrappuntato da scorie sintetiche e pattern di drum machine – di “From The Mouth”, o nella conclusiva trance electro-arab-jazz della title track (comunque superflua). Ma è del tutto evidente, già ai primi ascolti, che il focus dei “nuovi” Melt Yourself Down sia oramai altrove: un altrove ancora difficile da individuare con precisione, sperso tra le pieghe di un’impossibile conversazione cui convengono gli istinti orgiastici degli esordi e le macerie post-rave della fu Madchester (“It Is What It Is”), nascosto nei coni d’ombra dell’angolare e sinuoso trip hop badalamentiano di “Don’t Think Twice” o mandato in pezzi dall’irresistibile martello electro-reggae di “Every Single Day” (fiati fuori sincrono, bassi in primissimo piano).

Di un’imperfezione non di rado dispersiva, ma comunque originale, affascinante. “100% Yes” non può aspirare al podio di disco jazz dell’anno, ma potrebbe comunque proporsi come capofila di un filone parallelo, voce fuori dal coro di una Londra già polifonica.

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