Mercury Rev
Yerself Is Steam
Siamo nei primi anni Novanta. I Sonic Youth e i Fugazi hanno dato alle stampe da pochi anni due dischi spartiacque come "Daydream Nation" e "Repeater", battezzando di fatto l'indie rock tout court, gli Slint di lì a poco segneranno un'altra epocale svolta con il post-rock fratturato di "Spiderland" e l'epopea noise sta esprimendo i suoi ultimi vagiti grazie a band come Flaming Lips e Pixies. Dall'altra parte dell'oceano, si assiste ad un rinnovamento della scena psichedelica che rapidamente va incanalandosi sempre più nei neonati territori dello shoegazing.
E' in mezzo a questo complesso scenario (altre ancora sono, per la verità, le innovazioni che compaiono a cavallo tra le due decadi, come ad esempio la nascita del grunge) che i Mercury Rev di Jonathan Donahue, provenienti da Buffalo, NY, danno alle stampe il loro esordio, "Yerself Is Steam". Un esordio pazzesco, intriso di tutte le sperimentazioni ardite che la facevano da padrone nei dischi di quegli anni, in cui una fitta coltre di rumore riesce a andare meravigliosamente a nozze con dolcissime melodie dal sapore zuccherino e trasognato.
Si ha la consapevolezza di essere trasportati a forza all'interno di un sogno, e che sogno! I desideri più reconditi, le speranze più forti e le inquietudini più opprimenti sfociano tutte all' interno di questo meraviglioso poema della psiche, che si prefigura come il tentativo maggiormente riuscito di calare tra le mura delle sette note le opere freudiane.
Basta accendere il lettore e lasciar partire la prima traccia, "Chasing A Bee" per essere introdotti in questo meraviglioso universo musicale dipinto dal gruppo, un universo infestato di feedback lanciati a livelli inumani e da colate torrenziali di puro noise, in mezzo alle quali, però, si fa strada timidamente una cantilena dal sapore infantile, che sembra a fatica trovare un equlibrio di registro. Pochi secondi ancora, e il ritornello sfocia quasi all' improvviso, investito anch'esso da devastanti esplosioni di magma psichedelico (immaginate i Velvet Underground di "Sister Ray" che hanno un incedere estatico e rallentato simile al Robert Wyatt di "Rock Bottom"). Inutile girarci tanto intorno: siamo totalmente all'interno di un'allucinazione vera e propria.
Con la successiva "Syringe Mouth", invece, si ha a che fare con una trance minimale dal battito cadenzato e dall'incedere martellante, simile ad un mantra onirico in cui la chitarra stile Lou Reed assume però connotati vicini al glam, al punto che sembra un pezzo "rubato" a "Transformer". La voce di Donahue è semplicemente spaventosa in quanto ad abilità: riesce a passare rapidamente dal tono trasognato al quasi falsetto, dal timbro predicatorio da sciamano (come vedremo), allo stile più sardonico e svagato di un David Thomas. E' superfluo aggiungere che essa è uno dei valori aggiunti innegabili dell'album.
Si passa a "Coney Island Cyclone", in cui le divagazioni noise si avvicinano chiaramente alle atmosfere shoegazing (sentire i Ride di "Nowhere" per credere) e il cantato e l'impianto sonoro anticipano di due anni buoni la nascita del brit-pop (e siamo in America!). Ritornello contagioso, loop batteristico da infarto e puro non-sense lirico ("andiamo fuori stanotte e troviamo un posto soleggiato" recita il ritornello) sono gli ingredienti di questa magnifica torta psichedelica di tre minuti.
"Blue And Black" vede entrare in azione il Donahue "sciamano" citato in precedenza. Per la prima volta all'interno del disco si ha il piacere di ascoltare una traccia cupa, quasi sofferta, vera e propria linea di demarcazione tra sogno e incubo, figlia di un certo gusto new wave (ma della new wave più oscura e gelida).
I sette minuti e passa di "Sweet Odysee Of A Cancer" sono l'esatto compimento di questa parte centrale "nebbiosa" del disco; echi e riverberi alla Pink Floyd si protraggono quasi sfiniti su di una base in cui ancora più forti si fanno le ascendenze shoegazing e gli effetti dei droni di chitarra, che vanno a collocarsi in una terra di nessuno tra Slowdive e Roy Montgomery. Sembra la fine di ogni illusione, non a caso lo scenario prefigurato appare come quello di una scogliera oceanica, in cui un mare burrascoso e in tempesta, simboleggiante il mare di speranze quotidiane, si infrange contro gli scogli massicci dell'altrettanto quotidiana realtà disillusoria. E' la traccia che fa capire meglio di tutte perchè, nonostante il tono giocoso e quasi bambinesco di buona parte della produzione dell'ensemble, non si possano definire i Mercury Rev come un gruppo "allegro e spensierato".
Giunge dunque il capolavoro: "Frittering". Per sei, interminabili minuti, un cantato dal sapore nostalgico e rassegnato, che sembra provenire da lontanissimi lidi, viene dolcemente cullato da ondate di echi sonori incarnanti pura perdizione e progressiva perdita di coscienza. L'incedere mantrico del brano è davvero l'elemento più azzeccato: sembra non esserci mai fine al conflitto interiore, al desiderio di catarsi; è il canto di un naufrago, di uno sconfitto, al quale non resta che trasmettere il proprio mesaggio ad un'umanità che, geograficamente ed idealmente, è sin troppo lontana.
Dopo il caotico brevissimo intermezzo di Continous Trucks and Thunder Under a Mother’s Smile", la folle corsa ha il suo termine con "Very Sleepy Rivers",Donahue vicinissimo ai Pere Ubu più sghembi e pessimisti, incastonati in un giro di basso che ricorda ancora una volta i Floyd.
Oltre che per la sua bellezza intrinseca innegabile, "Yerself Is Steam" è un album da ricordare anche per l'influenza spaventosa che ha avuto sui generi più prossimi. Interminabile la lista di gruppi che presero nota: dalle band facenti parte del collettivo "Elephant 6" (Neutral Milk Hotel, Essex Green, Ladybug Transistor,...), al post-rock più "poppeggiante" di Flying Saucer Attack e Stereolab, all'ultima tornata di gruppi indie del nuovo millennio, come Grandaddy e Animal Collective.
Senza ombra di dubbio si può affermare che "Yerself Is Steam" rappresenta la nascita dell' indie-pop così come "Daydream Nation" rappresenta quella dell' indie-rock.
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