Red Hot Chili Peppers
Im With You
Ormai pesi massimi del rock più istituzionale in circolazione, nella medesima lega di U2 o Green Day per capirci, ecco nuovamente in azione i Red Hot Chili Peppers, a cinque anni di distanza dalla precedente fatica “Stadium Arcadium”. Rispetto ad allora la premiata ditta Kiedis & Flea presenta, come è noto, una pesante novità in formazione: la fuoriuscita di John Frusciante, il chitarrista erede del mitico Hillel Slovak, le cui vicissitudini hanno scandito, nel bene e nel male, il percorso della band losangelina per un ventennio (pure in veste di convitato di pietra per le sue inconsolabili vedove in tempo di contumacia). Non è infatti la prima volta che il buon John “ha lasciato il gruppo”, ma stavolta vi è una fondamentale differenza. A metà anni 90 il suo posto fu preso da un fuoriclasse come l’ex Jane’s Addiction Dave Navarro, capace di rinnovare completamente il suono dei Peppers, guidandoli verso brillanti orizzonti hard-psichedelici pur senza snaturarne la matrice funk e la freschezza compositiva. Una svolta troppo radicale che vide dimezzarsii le vendite multimilionarie di “Blood Sugar Sex Magik”, e così fu servita la restaurazione di “Californication”.
A questo giro la patata bollente passa nelle mani di Josh Klinghoffer, già fidato collaboratore della band e dello stesso Frusciante, di cui in sostanza ripercorre gli incerti sentieri delle precedenti prove. “I’m with you” si dipana dunque nel medesimo solco inaugurato dallo sconcertante “By the Way” del 2002, quello di una band che non ha la minima intenzione di rischiare un grammo dello stratosferico successo ottenuto, propinando come in un loop infinito la solita formula di un pop-rock da stadio sincopato, ben impacchettato e senza particolari guizzi, a parte forse l’esuberanza di “Goodbye Hooray” e la “Even You Brutus?” puntellata da un pianoforte saltellante. A meno che non si considerino novità i tocchi electro-disco delle “Factory of Faith” e “Look around”, guidate dalle scansioni del basso del buon vecchio Flea, o la temibile salsa che avvolge “Did I let you Know”…
Del resto che non ci sarebbe stata alcuna correzione di rotta si era capito già all’ascolto del primo singolo “The Adventures of Rain Dance Maggie”, in cui un felpato groove nella strofa si sgonfiava presto in un ritornello tanto orecchiabile e telefonato da sfociare in puro fastidio, con gli “Heyyyyyy” di Kiedis a ricordare sinistramente gli “Ehhhhhh” del Vasco nazionale in quanto a fantasia. E se l’iniziale “Monarchy of Roses” promette di invadere le playlist radiofoniche nelle prossime settimane, le varie “Dance, Dance, Dance” (per fortuna solo omonima del pezzo regalato da Neil Young ai Crazy Horse nel lontano 1971) ed “Ethiopia” sono destinate a finire nel cestino persino dei più irriducibili adepti al culto del peperoncino. Acme del lavoro per i più nostalgici è probabilmente l’elegia “Brendan’ s Death song”, in cui la band prova con discreto successo a replicare la dolente alternanza tra ustioni acustiche e tempeste elettriche che riportano ai fasti delle splendide “Deep Kick” e “Transcending”, suscitando più di una emozione.
In definitiva, “I’m with you“ si presenta come allegro e spensierato sussidiario, sotto il sole perenne della Felix California, degli eterni ragazzacci ormai cinquantenni, reduci da “Un mercoledi da leoni” sempre più decisi a non gettare la spugna. Per la Finis Californiae, ripassare magari nel 2015. Per il ritorno di Frusciante, ci giochiamo la data del 2018.
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