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R Recensione

8/10

Rammstein

Mutter

I Rammstein sono una delle band più originali ma controverse delle scene rock e metal europee. Da una parte idolatrati – anche eccessivamente – da una corposa massa di fan, dall’altra massacrati da una altrettanto folta schiera di detrattori. Secondo questi ultimi, il loro sound pomposo, gli spettacoli pirotecnici dal vivo e un’estetica non proprio sobria sono solo espedienti per mascherare una sottostante mancanza di idee e un’inadeguatezza tecnica (effettivamente è innegabile che i riff di chitarra siano molto semplici). Come al solito, la verità sta nel mezzo. Inoltre, il semplice fatto di essere tedeschi, unito all’incedere marziale dei loro brani e al cantato estremamente roco e grave del frontman Till Lindemann, costò ai Rammstein un’assurda accusa di simpatie naziste, che verrà smentita proprio in questo Mutter: in Links 2 3 4 Lindemann, come gli altri membri del gruppo nato e cresciuto nella DDR, chiarisce una volta per tutte che il suo cuore batte a sinistra.

Terza fatica in studio del sestetto tedesco, Mutter, uscito nel 2001, è per i Rammstein il disco della svolta. I primi due album, Herzeleid (1995) e Sehnsucht (1997), rappresentano la fase del cosiddetto tanz metall, il cui manifesto è Du hast, durante la quale il marchio di fabbrica del gruppo era il rapporto simbiotico fra le chitarre di Richard Kruspe e Paul Landers e le tastiere di Christian Lorenz, con espliciti richiami a Kraftwerk e Depeche Mode. Fin dalla prima traccia, Mein Herz brennt, è evidente che in Mutter tutto diventa più oscuro, a farla da padrona sono dei granitici riff di chitarra uniti alle ritmiche del batterista Christoph Schneider, che si fanno più incisive e serrate.

Sonne, Ich will e Feuer frei! sono, e a ragione, probabilmente i tre brani più noti del gruppo: riff indimenticabili, ritornelli-inno e adrenalina, gli ingredienti perfetti per un’ottima salsa Rammstein.

I notevoli testi di Lindemann trattano le tematiche più disparate, spesso raccontando storie affascinanti. È il caso di Spieluhr, uno degli highlight dell’album, narrante la vicenda di un neonato che, erroneamente creduto morto, viene seppellito vivo assieme al suo carillon, fino ad arrivare al lieto fine: durante una festività dedicata ai morti, il suono del carillon viene udito dagli abitanti del villaggio, e il bimbo viene tratto in salvo.

Apice del disco è, tuttavia, la title-track, le cui tristi liriche hanno un forte sapore autobiografico. Si parte con calma dalla strofa, in cui la splendida voce di Lindemann - che quando vuole sa essere melodiosa e commovente - è accompagnata da un rilassante arpeggio, per poi esplodere in un solenne ritornello in cui, ancora, si ha la perfetta simbiosi fra chitarre e tastiere.

Il disco si perde via con le ultime tracce, le quali pagano il prezzo di quella ripetitività che sarà un difetto costante per tutta la carriera dei Rammstein, i quali difatti non sforneranno mai un vero e proprio capolavoro. Mutter rimane comunque un disco di eccellente fattura, il migliore in tutta la produzione del sestetto e il più importante: è qui che viene forgiato il definitivo Rammstein-sound. I lavori successivi della band, infatti, saranno sempre più autoreferenziali, pur concedendo qualche momento memorabile.

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Voto degli utenti: 7,5/10 in media su 2 voti.
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