Neutral Milk Hotel
In The Aeroplane Over The Sea
Fra le tante copertine delle stravaganti, irrinunciabili uscite un tempo orbitanti attorno all’entità Elephant 6, ce n’è una che non ha rivali in quanto a bizzarria e senso del sublime. Mi riferisco, ovviamente, a quel distillato di stampe ottocentesche e manifesti circensi (non sembra il pronipote del buffo Mr. Kite di “beatlesiana” memoria quel ragazzino che saluta in calzamaglia a righe?), psichedelico come avrebbe potuto esserlo Lewis Carroll se avesse stretto amicizia con Timothy Leary e le sue “sorelline chimiche”. Il contenuto del disco in questione è addirittura più mirabolante della sua cover, specie se si pensa che la sporca “undicina” di brani proposti è (quasi) interamente frutto del genio d’un sol uomo: Jeff Mangum, ladies and gentlemen, emblema d’artista “oscuro” per antonomasia e fugace (ma indimenticabile) strimpellatore del cuore come pochi altri hanno saputo (voluto) essere.
Attivo fin dal 1989 nel trio Cranberry Life Cycle – il microcosmo da cui trarrà origine il collettivo dell’Elefante 6 – assieme a Will Cullen Hart e Bill Doss, Mangum inizia prestissimo a pensare “in proprio” e farsi beffa delle orecchie a sventola di quell’ancora minuscolo (ma intelligentissimo) pachiderma: dopo il trasferimento dell’organico in Georgia, il nostro cantore ripiega infatti su New York City e lascia i suoi ex colleghi soli a gingillarsi con il progetto Olivia Tremor Control che, da par suo, ci darà tante belle soddisfazioni negli anni a venire (un’ascoltatina di tanto in tanto a “Music From The Unrealized Film Script: Dusk At Cubist Castle” è sempre una buona ragione per alzarsi la mattina).
I primi anni ’90s sono quindi appannaggio delle tre cassette autoprodotte “Invent Yourself A Shortcake”( 1991), “Beauty” (1992) e “Hype City” (1993), fino a quando, irrequieto e ancora in cerca di una vera identità musicale, Mangum si trasferisce in Colorado e incide “On Avery Island” (1996) con l’aiuto di Robert Schneider degli Apples In Stereo. Slabbrato ma grazioso, il sound dei neonati Neutral Milk Hotel tritura la grazia degli stornelli folk e la sublime ridicolaggine delle “marching bands” per poi speziarne i rimasugli con distorsioni lo-fi pop a la Jesus And Mary Chain; il tutto contornato da testi bislacchi che parlano di Gesù, suicidi di massa, angeli di ghiaccio, pesci volanti e uomini e donne appesi come costate a ganci da macellaio (c’entra poco, ma questo l’aveva già immaginato il nostrano Juri Camisasca la cui poetica è, per certi versi, sorprendentemente affine a quella di Mangum: andatevi a spulciare il suo esordio “La Finestra Dentro” del ’74 per averne conferma).
Baciato (vabbè, si fa per dire) da un insperato quanto indesiderato successo di nicchia, nella primavera del ‘97 Mangum si circonda di una manciata di musicisti “fissi” (Jeremy Barnes, Scott Spillane e Julian Koster) e inizia a registrare i brani che, un anno più tardi, andranno a costituire la carne tenera e sugosa del capolavoro “In The Aeroplane Over The Sea” (Merge, 1998), uno dei punti più alti del cantautorato a stelle e strisce del decennio scorso. Il genere di riferimento, si badi, non è stato scelto a caso giacchè, ora più che mai, il nostro uomo sembra rannicchiarsi in posizione fetale nel grembo di una improbabilissima “tradizione” di singer-songwriters che parte da Bob Dylan, fa sosta chissà come nelle visioni psych di Syd Barrett e giunge al capolinea sulla spiaggia deserta in cui è disperso il Neil Young di metà ‘70s.
Un disco puro, lunatico, acidulo ed inquietante. Un lavoro dove le sonorità noise sono opportunamente circoscritte ad un paio di episodi (le swinganti e peraltro splendide “The King Of Carrot Flowers Pts. Two & Three” e “Holland, 1945”) e grande respiro acquistano invece arrangiamenti discreti ma sempre eccentrici (chitarra acustica, xilofono, ottoni, zanzitofono (?), eufonio (??), organo, fisarmonica). È in questo scenario da “giardino delle delizie” che nascono e sfioriscono il tenero gracidare fra segnali radio di “Communist Daughter”, il disarmante, perlaceo abbandono melodico di “The King Of Carrot Flowers Pt. One” e della Title Track, la marcetta “felliniana” di “The Fool” che sfrutta sapientemente tutti quei “sonagli del ricordo” (grancassa, trombe, tuba, organetto) capaci di sublimare le paure dell’infanzia con i trucchi alla buona dell’avanspettacolo.
Su tutto si erge una voce tesa, rabbiosa, infervorata di un’ansia che definire “religiosa” non è poi così azzardato. Si testino, a tal proposito, il lungo salmo di “Oh Comely”, otto irrinunciabili minuti di stream of conciousness per voce e chitarra in cui la costruzione armonica si piega ai moti dell'animo e le liriche tratteggiano una sorta di contraltare “picassiano” alla “Sad Eyed Lady Of The Lowlands”, o il dittico spedito del “Two-Headed Boy”, forse la figura più dolorosa ed emblematica di tutto il suo repertorio di freaks.
Grondante onirismi gratuiti e ridacchianti mostruosità, ogni testo è un meccanismo ad orologeria che fa dell’approssimazione cronometrica il suo maggior vanto: gonfie di ghirigori paesaggistici (“Sweet communist, the communist daughter / standing on the sea-weed water / Semen stains the mountain tops”) o spogliate da ogni farfallino residuo (“And your mom would sink until she was no longer speaking / And dad would dream of all the different ways to die / Each one a little more than he could even try” da “King Of Carrot Flowers Pt. One”), le liriche sgorgano dall’ugola di Mangum con la stesse irruenza con cui il suo plettro scolora fra le corde arrugginite, assorbendone l’intimo (e letale) respiro.
Una sorta di fatalismo dal retrogusto panteistico, il suo, che sovente diviene pura necessità fisica, come nell’invocazione accorata della Title Track (“And one day we will die / And our ashes will fly from the aeroplane over the sea / But for now we are young / Let us lay in the sun / And count every beautiful thing we can see”), o in quella più agrodolce di “Two-Headed Boy Pt. Two”, ma sempre eletto a ingresso privilegiato per quella dimensione in cui memoria, sogno e desiderio si avvinghiano in un umido, sudato abbraccio.
In ultimo, l’istanza principe sembra quella di cogliere il divino che si annida in ogni gesto, anche il più grottesco e disperato: “Tutto il mondo che ci circonda è straordinario, ma il solo fatto che lo vediamo da un’unica prospettiva ci fa pensare che non ne esistano altre” spiega lo stesso Mangum. “Possiamo vedere un formicaio, uno scarafaggio, un fiore o qualsiasi altra cosa ma li vediamo solo dalla nostra prospettiva e quindi passiamo oltre, perdendoci la possibilità di provare lo stupore magnifico che avremmo osservando tutto più da vicino. D’altra parte, cos’è mai la realtà?”. Ecco il punto: l’universo dei Neutral Milk Hotel non è altro che una fantasmagorica parata dove del reale ci viene restituito soltanto un riflesso traslucido: un ventre tiepido dentro il quale, a ben vedere, sgambetta ancora una ingenua esaltazione per la vita, nonostante la ferita di dover essere ad ogni costo.
“In The Aeroplane Over The Sea” è diventato, con gli anni, un album leggendario, e non solo per la qualità indiscussa del materiale ivi contenuto. Trattasi, infatti, dell’ultima manifestazione tangibile del talento di Mangum prima di 1) sparire dalle scene in barba alla crescente stima di pubblico e colleghi (avrà persino la faccia tosta di negarsi agli R.E.M. che lo volevano come spalla in tour) e 2) dedicarsi alla pubblicazione di musica dei Balcani con la sua etichetta Orange Twin Records. Evidentemente disturbato dal benché minimo barlume di notorietà e roso da un acuto tormento spirituale, il nostro “ragazzo a due teste” ha preferito lasciarsi il passato alle spalle, lasciando i suoi compagni liberi di rientrare fra i ranghi delle formazioni cardine della combriccola Elephant 6 o, in casi sporadici, di dar vita a progetti nuovi di zecca (Jeremy Barnes, in particolare, si dimostrerà autore di spiccata personalità dietro il moniker A Hawk And A Hacksaw).
Nemmeno il più ostinato dei Salinger può però sfuggire al richiamo delle fiotti di indie kids sparsi per il globo che reclamano a viva voce nuovo materiale: ecco quindi spuntare dal nulla il modesto “Live At Jittery Joe’s” (2001), resoconto di uno show molto informale tenutosi in un coffee shop di Athens nel ‘97, fra sorprendenti covers (“I Love How You Love Me” di Phil Spector in primis), qualche inedito e tanti brani che insaporiranno la farcia del secondo, celebratissimo album; ecco, soprattutto, “In The Aeroplane Over The Sea” finalmente ristampato dalla Domino (con tanto di commenti entusiastici da parte di Arcade Fire e Franz Ferdinand) per permettere a noi poveri mortali di saggiarne, una volta di più, la fragrante consistenza.
Nel frattempo, però, di Mangum nessuna traccia. Voci di un suo presunto ritorno in pista sono state prontamente smentite dall’amico Schneider, azzerando così ogni eventuale possibilità di riesumare dalla cantina l’insegna NMH. Eppure mi piace credere che, un giorno, il Nostro trovi la forza di evadere dall’isolamento auto-impostosi e lasci vibrare, anche solo per un’ultima volta, quel canto miracolosamente irregolare che molti di noi hanno imparato ad amare. D’altronde, “The world it goes and all awaits the day we are awaiting…” recita un verso di “King Of Carrot Flowers Pt. Two”. Tutto attende, insomma. E lui, per quanto ancora potrà resistere?
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