Pan Sonic
Gravitoni
Non credo ci sia ancora bisogno di ribadire quanto postulato da Alva Noto, Oval, Biosphere, Frank Bretschneider, Ryoji Ikeda e compagnia bella in fatto di glitch. Il rumore si è largamente legittimato nell’ambiente dell’arte sonora da quasi un secolo e non me la sento di scomodare in questa sede i futuristi e le loro invenzioni assordanti e geniali. I Pan Sonic, dalla freddissima Finlandia, hanno percorso negli ultimi quindici anni un sentiero di personale visitazione del suono digitale che li ha portati oggi a “Gravitoni”, summa artistica di quella complessa sovrastruttura che vede la melodia stuprata dall’errore, l’armonia violentata dall’interferenza e la trama rovinata dalla sregolatezza. Nel caotico ricamo del lavoro dei Pan Sonic c’è l’imprevedibile ascesa di un evento irrazionale che può o meno realizzarsi, un po’ come succedeva durante gli happening di Chris Burden. E c’è di più. Infatti, nella loro opera c’è il seme della discordia tra chi ama la musica e chi il suono.
“Gravitoni” si apre con “Voltos Bolt”, un’astratta raffigurazione di fili elettrici e bulloni, prese di corrente ed elettrodomestici lasciati soli, in un trambusto di elettronica di nuova generazione; subito dopo arriva un po’ di ritmo grazie ai kicks di “Wanyugo”, un pezzo che, assieme al successivo “Fermi”, risente molto del luogo in cui è stato registrato, ovvero Berlino, capitale di un Paese certamente meno gelido della Lapponia ma certamente più esigente e razionale sotto il punto di vista della pulizia del suono: non a caso, i segmenti auditivi messi in cantiere da Mika Vainio e Ilpo Väisänen hanno una qualità eccelsa. Pur nel loro vizio di forma (quello di produrre enarmonia) conservano un primordiale istinto che li avvicina alla perfezione delle sfere celesti. Il disco continua sulle folli esuberanze di “Corona”, dopodiché sfuma con le trasmissioni interrotte di “Radio Qurghonteppa”. I Pan Sonic costringono l’ascoltatore a lottare con tutto ciò che ha ascoltato prima d’ora perché in “Gravitoni” egli non troverà accondiscendenza e mitezza, né tantomeno adulazione. Questo suono obbliga a studiare o, perlomeno, a riflettere.
Il metallico lavorio scandinavo procede sulle trapanazioni di “Trepanointi” che, come martello pneumatico, sfascia le cortecce cerebrali per insediarsi in testa; è poi la volta di “Väinämöisen Uni”, sette minuti che costringono l’ascoltatore, come in un flashback ad occhi spalancati, ad interrogarsi sul tragitto sinora seguito: proviene dai diffusori acustici questo leggero ronzio o è il frigorifero in cucina? I Pan Sonic ci indicano l’uscita di sicurezza con “Suuntaa-Antava”, un pezzo dalla perfetta panoramica che lascia nel trasduttore una distante ma intensa eco, come quella che lasciano certi vini di classe. “Hades” è invece esplosione in lontananza di bomba all’idrogeno, come pure è luogo di esclusiva prerogativa del dio degli inferi: il suono qui si rischiara, diventa tondo, avvolgente, e si gonfia di frequenze che prendono in prestito il sinusoide e il dente di sega. Il ritmo iniziale di “Wanyugo” torna con “Kaksoisvinokas”, traccia in doppia somministrazione che da un orecchio ci entra e nell’altro pure, seppure in ritardo; infine il “Pan Finale” riporta tutta l’opera sul sentiero della modernità elettronica, dimostrando che col glitch si può fare trip-hop o breakbeat.
L’estetica dell’errore ampiamente voluta dai Pan Sonic è la riprova a certe assurde posizioni critiche che non solo di note, accordi e scale è fatta la musica, e che la notazione convenzionale è adatta fintanto che la musica da comporre è la solita solfa di sempre.
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