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R Recensione

7/10

Philippe Petit

Multicoloured shadows

Composto nel 2014 a celebrazione dei trent’anni di attività, il nuovo LP di Philippe Petit pubblicato a giugno 2015 propone un approccio diverso da quello a cui ci aveva abituati. Se in precedenza i solo works del marsigliese erano perlopiù interferenze digitali su apparecchiature analogiche – il giradischi e il salterio su tutte – che producevano lunghe ed estenuanti elucubrazioni sonore, siamo ora di fronte al disco più melodico della produzione petitiana, avente un certo gusto classico, purché la parola “classico” non sottenda il concetto di “antico” ma anzi il suo contrario, “contemporaneo”, dacché la musica del ‘900, etichettata come contemporanea, è ipso facto classica, atemporale.

Multicoloured shadows” è costituito da tre brani, l’ultimo dei quali diviso a sua volta in due episodi distinti. I temi e gli effetti cari a Petit, quelli sì, sono sempre gli stessi: il sogno e la psiche, i riverberi e le amplificazioni. Si parte da “Yourselfosophy”, quattordici minuti intimi e concitati dove una cassa techno distorta a mestiere va in controtempo con i synth, al di sotto di dilatazioni elettroacustiche che coinvolgono la personalissima caterpillar drum-guitar al pari di pianoforte, chitarre acustiche e organo; il sound è un ordinato miscuglio bandistico in cui ogni strumento fa la sua entrata in scena al tempo giusto. “Pyramid of the moon” (feat. Hervé Vincenti) sembra proseguire il tema del brano precedente, vergando la superficie sonora con rumori e clangori. Nei ventidue minuti di “Tidbinbilla sanctuary” c’è invece un diverso canovaccio compositivo: quasi fossimo in presenza del Klaus Schulze più sperimentale, Philippe Petit confeziona, in due parti, una suite desertica e desolante con suoni minimi che vengono a galla come una morìa di pesci in un lago australiano. Dapprima bolle e schizzi, fino ad un preoccupante e sconvolgente sciabordio di acque bollenti e vite impazzite. Infine ombre, segnale di una qualche presenza. Poi, niente più.

Frastuono e trambusto? Suoni e melodie? Schizzi di colore? Possono mai le ombre riflettere la scala cromatica? Chiaro che sì, sembra dirci Philippe Petit.

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