Bon Iver
Bon Iver
Che il secondo album, nella carriera di un artista, rappresenti la sfida più difficile è opinione abbastanza condivisa. Ovvio che tale difficoltà/responsabilità aumenti in rapporto alla qualità del debutto. E in questo senso (ma solo in questo) non avrei voluto trovarmi nei panni di Justin “Bon Iver” Vernon: quante sono, infatti, le opere prime interamente create (e diffuse) in proprio che possono vantare la qualità stordente ed il successo di quel "For Emma, Forever Ago"? Senza volerne ricordare la storia, a quattro anni di distanza da quell’uscita e alla vigilia del nuovo lavoro, qualche considerazione è tuttavia d’obbligo.
Justin Vernon è passato dal capanno sui monti del Wisconsin ad uno studio di registrazione personale allestito secondo le sue peculiari necessità; le sue canzoni (quelle che una volta ascoltavano gli amici e di cui oggi fa cover Peter Gabriel) fanno da colonna sonora a serie TV americane di grande successo; Justin si esibisce nei più importanti festival “alternativi” del globo, è talmente considerato da potersi permettere di pubblicare anche (prescindibili) side-projects e, manco fosse un talismano (ché il dubbio potrebbe pure venire), è diventato uno degli uomini del settore più ricercati d’America, si tratti di sfruttarne l’arte (innumerevoli quanto bizzarre le collaborazioni, da St. Vincent ai Gayngs, da Kanye West a The National) o anche soltanto il nome (la sua opinione serve oggi, per dire, a promuovere un disco avant-jazz qual è l’ultimo di Colin Stetson). È chiaro che del Bon Iver del 2007 rimane ben poco. E dunque, posta l’oggettiva irripetibilità di un disco come "For Emma, Forever Ago", cosa potrà mai fare, ora che ha tutto, uno che con niente si è fatto sentire dal mondo intero?
A proposito del nuovo disco, qualche tempo fa, Vernon diceva che i testi sarebbero stati “un’estensione di For Emma. Come quando vai via da un posto e non necessariamente riesci subito a trovarne uno nuovo”. Il tema del viaggio, in effetti, è evidente già a partire dai titoli delle canzoni (nomi di città, usati tuttavia in modo simbolico). È un nomadismo, anche solo concettuale, che si contrappone alla sedentarietà associabile al primo disco, così come l’ufficializzazione di una formazione a tre (e l’apertura ad uno stuolo di strumenti e partecipazioni) può rappresentare il superamento di quell’isolazionismo cui il ragazzo deve, almeno in parte, la sua fortuna.
Bon Iver è un disco di canzoni il più delle volte complesse, sfuggenti nelle loro strutture (ad un primo ascolto quasi amorfe) e caratterizzate da arrangiamenti sfarzosi che non si preoccupano di nascondere, ora, una candida ma consapevole ambizione. La chitarra si fa volentieri elettrica e, insieme al basso e alla batteria dei fidati McCaughan e Carey, solca strati e strati di tastiere, fra incursioni di fiati e corni, cenni di pianoforte ed elettronica lieve in un clima sempre tremendamente agreste e romantico, ma adesso anche solare, frizzante, da sagra primaverile. Un po’ nella scia dell’ultimo Iron & Wine, Justin rielabora il suo linguaggio nel tentativo di dare nuova forma alla tradizione antica che permea la sua musica.
Rimangono gli elementi più tipici: la voce “trattata” a suon di vocoder e sovraincisioni multiple, le melodie perfette e perfettamente in bilico tra suggestioni folk e soul (un soul trasposto in spazi “altri”, non per niente vicinissimo, proprio per linee, a Tunde Adebimpe dei TV On The Radio), l’ispirazione in perenne stato di grazia che si traduce in una comunicatività unica. Per il resto, tutto suona nuovo: "Perth", che guarda al post-rock, nasce da dolci spigoli elettroacustici, cresce su un rullante militaresco per farsi marziale, epica e cinematografica in un finale portato dal meraviglioso sassofono di Colin Stetson (ah, ecco…); "Minnesota, WI" è un labirinto di arrangiamenti il cui ingresso - un fraseggio in minore che si liquefa in levare quasi reggae - fa da antipasto a una melodia eccelsa (e, squillino le trombe, piena di toni gravi!), ad ammiccamenti avant e ad inciampi ritmici ancora una volta sottolineati dal sax distorto di Stetson; "Calgary", primo singolo estratto, vive di tastiere, voce e crescendo per realizzarsi in un finale chitarristico di grande suggestione; "Towers" conduce una riduzione folk dentro briose arie da pop d’Albione. Non solo gli ascolti a tutto tondo, ma pure gli artisti con cui ha collaborato sembrano entrare nei solchi dell’album: "Holocene" omaggia la composta eleganza di The National, nascondendo la complessità strutturale (non bastano le battute dispari, c’è bisogno di aggiungerne un’ulteriore mezza per compiacere la melodia) dietro un’intensità che porta dritti all’estasi; "Beth/Rest", il brano meno facilmente “catalogabile”, è una sorta di r 'n' b bucolico da Pascoli del Cielo, impreziosito da una parte dalla pedal steel di Greg Leisz (già con Bill Frisell e Lucinda Williams) e dal piano, dall’altra dalla dichiarazione definitiva “I ain’t living in the dark no more”.
Forse meno incisiva la parte centrale del lavoro, là dove dal minimalismo delle rotonde strofe di "Michicant" e dagli eccessi di delay e contrasti vocali di "Hinnom, TX" traspare quella sensazione sfuggente di incompiutezza, o imperfezione, che è peraltro un tratto caratteristico della poetica di Vernon (evidenziato, ancora di recente, nel disco dei Volcano Choir). Ma si tratta, appunto, di sensazioni. Ché questo Bon Iver è un ritorno luminoso e potente, generoso nel soddisfare le più alte aspettative, ma attento nel concedere le proprie grazie solo un poco alla volta, come la più seria delle ragazze che si possano desiderare. Sarà anche vero che un nuovo posto non si trova necessariamente subito, ma se viaggiare è così bello va bene anche non trovarlo mai.
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