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R Recensione

7,5/10

Murubutu

L’uomo che Viaggiava nel Vento

Il quarto disco di Murubutu, uno dei rapper più atipici e interessanti del panorama italiano, si presenta fin dalla copertina come un secondo volume di un racconto ideale iniziato due anni fa con “Gli Ammutinati Del Bouncin”, del quale riprende non solo la grafica, ma anche l’idea del disco a tema. Se in quel caso i racconti erano legati tra loro dalla presenza del mare, qui l’elemento fondamentale scelto è il vento, presenza constante in ogni brano, che sovente diventa esso stesso personaggio principale. Un vento che modifica il percorso delle vite dei protagonisti, aiuta a fuggire, cambiare, prendere il volo. E la fuga è uno dei temi centrali del disco. I personaggi delle storie raccontate da Alessio Mariani fuggono da una vita fatta di lavoro umile, dalla povertà, da un paese ridotto in macerie dalla guerra, da una provincia che non dà speranza in un futuro migliore, da un matrimonio combinato.

E il vento diventa quasi forza creatrice, come metaforicamente ci dice il titolo scelto per aprire il disco, quell’“Anemos” che vuol dire vento, ma anche, simbolicamente, “soffio vitale”, anima (e il brano finale, si chiama, altrettanto simbolicamente, “L'ultimo soffio”). “Anemos” si apre con un arpeggio di chitarra su una base slow, e Murubutu dimostra subito le sue doti di cantastorie, a cavallo tra rap e canzone d’autore, con il suo consueto uso della lingua italiana ricercato e colto. In “La bella creola” i suoni acustici fanno da sottofondo a liriche inusuali per lo standard medio del rap italiano, con un linguaggio raffinato e  pieno di citazioni, e chiari riferimenti all’importanza dell’istruzione, della quale la protagonista è la personificazione. E la cultura, in particolare quella classica, è ben presente in molti brani, a partire da “Il re dei venti” dove, su una base di suoni elettronici ritmati e scratch da old school, si racconta la nascita dei venti secondo la mitologia greca, e la loro personificazione.

Il suono del vento inserendosi tra un brano e l’altro diventa uno strumento del disco, e accompagna tutti i personaggi che lo popolano. Il vento aiuta Giulia a superare le difficoltà della vita nella toccante “Grecale”, aperta dalla melodia classica di un pianoforte, in cui la protagonista corona la sua passione per la danza, studiando duramente e lottando per emergere nonostante le difficoltà della sua condizione, e, nonostante la cecità, arrivare a danzare come il vento. Il vento spinge Paolo a fuggire in “Scirocco”, a scappare da una provincia fatta di palazzi, eternit, eroina, in cui il vento è l’unica cosa a dare la speranza di riuscire a evadere. Ottimo qui il featuring di Rancore, un altro dei pochi rapper italiani che  sanno raccontare storie senza cadere nei luoghi comuni del rap tricolore. Tragico il finale con la morte del protagonista durante la fuga in moto. Il vento diventa esso stesso personaggio protagonista, nella battaglia raccontata in “L'armata perduta di Re Cambise”: qui, su un arpeggio di chitarra, lo splendido flow del rapper emiliano narra la storia di un’epica battaglia dell’antico Egitto in cui il vento diventa un attore in campo, sconfiggendo un esercito di cinquantamila uomini. Una grande lezione di storia a tempo di rap.

Storie ambientate in epoche e luoghi diversi, con le quali Murubutu ci accompagna in un viaggio attraverso i secoli e i continenti, partendo dalla mitologia greca per attivare ai nostri giorni, incontrando personaggi comuni, popolari, che lottano per vincere la sorte, e a volte soccombono. Come la Maria di “Linee di libeccio”, che in un’Italia uscita in macerie dalla seconda guerra mondiale sposa un militare americano e va a vivere in Connecticut, per scoprire che il sogno americano forse non esiste. Come la Mara di “Mara e il maestrale”, brano aperto dalle onde del mare e un arpeggio di chitarra acustica: un esempio di come scrivere una storia d’amore e di emigrazione in maniera originale, evitando di cadere nei luoghi comuni della musica leggera. Ma la lotta contro il fato può anche essere vincente, come per la Giulia di “Grecale”, o per  la Dafne di “Dafne sa contare”, che per fuggire ad un destino già scritto (come da tradizione sposerai un vecchio ricco) si trasforma in vento.

Spicca su tutto la capacità di Murubutu nel destreggiarsi con la lingua italiana, dando prova di grande capacità di scrittura in “Isobarre” (splendido gioco di parole), e raggiungendo in “Bora” vertici di poesia inusitati nel mondo della canzone (se non nei cantautori più colti), senza perdere però il suo essere profondamente rap, con un flow veloce e incontenibile per raccontare la potenza del vento di Bora. Una originalità evidenziata anche dai featuring presenti nel disco. Qui non troviamo i soliti nomi del “giro rap che conta”, ma, oltre al già citato, grandissimo, Rancore, ecco che in “Levante” arrivano Dargen D'Amico e Ghemon; una strofa a testa, per un vero e proprio sfoggio di bravura per i tre rapper più particolari e originali del panorama tricolore. Il disco si chiude con “L'uomo che viaggiava nel vento”: un omaggio alla passione del volo col deltaplano, che rappresenta la sfida al vento e la realizzazione del sogno dell’uomo, da Icaro a Leonardo, quello di volare.

Un lavoro prefetto dal punto di vista concettuale, e splendidamente realizzato dal punto di vista musicale, che conferma Murubutu uno dei migliori rapper italiani, capace di condensare in tre minuti storie che potrebbero riempire libri interi.

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Andrea tweedy (ha votato 9 questo disco) alle 19:46 del 18 marzo 2017 ha scritto:

Capolavoro