Wild Beasts
Two Dancers
Finalmente l’Inghilterra. Sono bestie selvagge davvero i Wild Beasts, da Kendal, ormai stabili a Leeds, che dopo il debutto dell’anno scorso (“Limbo, Panto”) danno una levigata al proprio art-pop teatrale e pirotecnico, consegnando alla madrepatria Albione un signordisco da divorare con snobismo britannico e passione vera. Perché “Two Dancers” è un lavoro che gioca sugli attriti, primo fra tutti quello tra una patina sonora smussata, quasi glabra a tratti, decorata da un certo dandismo d’oltremanica, e un contenuto lirico aggressivo, brutale in certe punte, impudico sempre.
È qualcosa di simile a un concept sessuale, “Two Dancers”, album fisico e sudaticcio, prorompente ma fatto di ceramica e vetro. È il disco della gioventù inglese che sfoggia la propria urgenza carnale attraverso un escapismo musicale da modernariato, stipato di richiami new wave e atteggiamenti da esteti scaduti: i ragazzi si aggregano in gang, sono bruti che fanno branco («brutes in cahoots»), lottano per le ragazze, sfidano come animali i rivali in amore («rivals who go for our girls»), per poi diventare, dopo la conquista, giovani dannati («young reprobates») maledetti dalla fragilità. E tutto questo teppismo dongiovannesco dai tratti epici è esplicitato in testi senza peli sulla lingua («This is a booty call; my boot up your asshole», «his dancing cock down by his knees» e molto altro), declamati con teatrale disdegno dal falsetto di Hayden Thorpe.
Elemento che può creare un blocco per molte orecchie, la voce senza mezze misure di Thorpe resta uno dei punti di forza dei Wild Beasts, sebbene in questo disco ai suoi barocchismi vocali si affianchi molto spesso il baritono del bassista Tom Fleming, per una complementarietà da brividi. E così ci si ritrova ad ascoltare qualcosa di simile a Jimmy Sommerville che duetta con Mark Lanegan su un pezzo dei Roxy Music, Russell Mael (Sparks) che rifà i Duran Duran, Billy Mackenzie (Associates) a braccetto con Guy Garvey (Elbow), Brett Anderson svenevole mentre canta i tardi Stranglers. Elementi new wave si intrecciano a spunti funky (i Talking Heads piallati), cenni estetici new romantic a divagazioni indie-rock, mentre Chris Talbot alla batteria esalta gli altri elementi attraverso un uso fantasioso e a 360 gradi del drum-kit, con ampia insistenza sui tom, a dare spessore. Il risultato è di grande personalità, e almeno metà disco sale su livelli di eccellenza pop.
I compiacimenti e gli sfoggi di volgarità non infastidiscono, perché il gioco di contrasti tra il maschilismo stolido dei testi e la raffinatezza gay-friendly dello stile sonoro tende ad incantare. “All The King’s Men” è quanto di più misogino il pop possa dire (alle ragazze: «you’re birthing machines [siete macchine per fare figli], and let me show my darling what that means», che è qualcosa di una grossolanità spaventosa), ed è detto in un auto-dialogo semiserio fatto tutto da Fleming tra un tono da suocera strizzata e uno da amatore self-confident, sopra un’altalena di cori maschili che seguono il basso e urletti femminei simil-Bee Gees. Tutto si chiude sul «broken body» del protagonista spossato, ed è gloria.
Le chitarre, in un disco così levigato, lavorano sui dettagli e sulle limature, eppure riescono a disegnare, a mo’ di gesso sulla pietra, melodie trascinanti, che trainano canzoni intere sopra i loro riff: così in “Hooting And Howling”, melodrammatico racconto sull’eterna aspirazione all’amplesso, segnato da un piano gentile e dall’ipnotico fraseggio della sei corde, mentre “Two Dancers” della chitarra fa il proprio centro, in un clima freddo e scuro che risvolta l’esibizionismo istrionico degli altri pezzi rimandando, soprattutto quando la batteria furiosa incide i momenti strumentali, a recenti esperienze indie rock (Editors). C’è, dunque, un sostrato britannico a serpeggiare nel disco, da “The Empty Nest” (Elbow di nuovo) a “This Is Our Lot” (The Veils, Geneva).
E poi ci sono le vette. “The Fun Powder Plot”, il cui minuto e mezzo strumentale in apertura ondeggia grazie al basso acquoso e sfocia nel dialogo tra il falsetto di Thorpe – immaginate Antony con una botta di vita e di autoironia – e gli arpeggi cristallini della chitarra, si esalta nel climax finale, dopo disquisizioni sulla dissoluta brutalità dei giovani flâneur di oggi che è poi “We Still Got The Taste Dancin’ On Our Tongues” a tradurre in esaltazione sensuale. Qui si respirano assieme la facilità con cui i Wild Beasts creano un pop di alta classe ma senza artefazione e il clima neodecadente che pervade il disco. Lo sfondo di una città notturna sconvolta dai ragazzi in calore vagolanti come cani («Us kids are cold and cagey rattling around the town») si anima dello stillicidio del piano e dell’eco tremolo della chitarra, a creare un quadro che cita i "Tableaux Parisiens" baudelairiani aggiornandoli all’esplicita fisicità dell’oggi: l’erotismo gocciolante è mimato, fatto suono, plasmato nel vocalizzo splendidamente lezioso che apre il pezzo (molti potrebbero fermarsi infastiditi a quello; il falsetto così colmo di ghirigori non ha il dono della bellezza universale). E il libertinaggio, nei tom scalpitanti e nei taglietti algolagnici di elettrica, diventa vulnerabilità.
I Wild Beasts hanno poco più di vent’anni. Hanno il tempo di distruggere tutto, infiacchirsi come ogni casanova dopo gli eccessi di lussuria, sparire nell’anonimato notturno del vizio, eccedere nell’autocompiacimento e nella provocazione, ma possono anche diventare la band che fa ritrovare all’Inghilterra il senso del pop. Per adesso, seguendo le leggi del piacere, c’è solo da godersi questo disco.
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