R Recensione

8/10

Hoover

The Lurid Traversal Of Route 7

Ian MacKaye ha diciotto anni anni quando, nel lontano 1980, insieme a Jeff Nelson, con lui nei Minor Threat, fonda la Dischord Records. È l’inizio di una parabola, ancora oggi non conclusa, fra le più significative nel panorama della musica indipendente e del rock in generale, che ha visto germogliare e prendere forma nell’ambito di questa etichetta alcune delle intuizioni e delle produzioni più seminali di sempre. A partire dal movimento straight edge (titolo di un brano del primo EP dei Minor Threat, datato1981),  che solleva il ragazzo punk dallo status di “cazzone” per attribuirgli, in un’accezione in buona parte anche politica, quello ben più onorevole di “militante”: ciò che fino ad allora era stato sinonimo di nichilismo, disordine, teppismo, disgusto per il prossimo e sé stessi, si eleva fino al conseguimento di una valenza etica. Ispirare un movimento in ambito punk in cui gli elementi costituenti si supportano invece di mandarsi affanculo l’un l’altro, farlo usando come collante argomenti quali l’astinenza da fumo, alcol, droghe e sesso, è già di per sé un fatto eclatante che, di fatto, pone da subito Dischord fra le etichette di culto.

Nel volgere di un paio d’anni dopo lo split dei Minor Threat, avvenuto nel 1983, il dogma Dischord vede un progressivo allontanamento dalle sue forme più ortodosse. Il fuoco della ricerca si sposta dalla dottrina, da un verbo unidirezionalmente proteso verso l’”esterno”, alla catarsi introspettiva, all’esplorazione del sé nelle sue più insondabili manifestazioni. Band quali Embrace e Rites Of Spring e le prime cartucce sparate dai giovanissimi Squirrel Bait ci traghettano direttamente alla rivoluzione “post” degli immensi Fugazi ed al punto zero individuato e marcato dagli Slint nel 1991. Pozzo di innovazione creativa probabilmente non ancora esaurito, Spiderland è la scintilla che innesca alcune delle migliori intuizioni musicali dello scorso decennio: dalla furia math di Shellac, Don Caballero e Laddio Boloko alla sperimentazione dei Gastr Del Sol, dal post “jazzy”dei Tortoise a quello invece molto “rock” dei June of ‘44.  

È un’orgia di incontrollabile fertilità creativa che vede, come è ovvio che sia, a fianco di tanti impareggiabili capolavori, la produzione di altrettanti lavori ”minori”, forse non così rivoluzionari e definiti, ma caratterizzati da un fondamentale ed innegabile valore prodromico che ne esalta la comunque scintillante qualità effettiva. Classico esempio in questo senso sono i Rodan di Jeff Mueller, Jason Noble e Tara Jane O’Neil, il cui Rusty è già stato comunque e a più mani ripescato dal fiume dell’oblio e di cui questo The Lurid Traversal Of Route 7, disco d’esordio ed unico LP del misconosciuto gruppo degli Hoover, può in qualche modo essere considerato un complemento irrinunciabile. Basterebbe, a questo proposito, la parentela con il “supergruppo” (in tutti i sensi) dei June of ’44: nella sua triplice componente di derivazione hardcore (che esclude la sola batteria) la chitarra di Mueller viene dai Rodan, quella di Meadows dai Lungfish, il basso e la tromba di Fred Erskine dagli Hoover. La personale visione innovatrice di questi musicisti, già eclatante nelle uscite dei rispettivi gruppi, ha trovato nei June of ’44 l’amalgama perfetto per l’esaltazione reciproca, evidenziata senza mezze misure nel gioiello Engine Takes To The Water (Quarterstick, 1995) che, ancora oggi, rimane una delle cose più luminose di sempre apparse in ambito rock.  

Gli Hoover sono, nel 1993, il progetto parallelo di Erskine e del chitarrista Joseph McRedmont, impegnati allora con i Crownhate Ruin a spostare il fuoco del loro prodotto musicale dall’emotività tipica della Dischord prima maniera verso forme destabilizzanti e destrutturate del formato canzone. Lo splendido The Lurid Traversal Of Route 7 riesce, forse paradossalmente, ad andare oltre i risultati dei Crownhate Ruin, pur vertendo su elementi per molti versi comuni: l’intento è quello di superare la lezione (dottrina) impartita dai Fugazi (e ormai diventata ortodossia) stirando la potenza hardcore, nella sua forma più “sbieca” (quella, ad esempio, dei Drive Like Jehu) dentro distensioni atmosferiche dal carattere fortemente slintiano. Negli Hoover, oltre ai già citati Erskine e McRedmont, suonano Alex Dunham (chitarra e voce) e Christopher Farrall (batteria). Pur provenendo da città diverse, i quattro si incontrano a Washington in seguito alla migrazione artistica dei primi ’90, che vide diversi musicisti trasferirsi nel Distretto di Columbia attratti dalla fama della sua florida scena underground. Ian Mackaye conobbe buona parte degli Hoover nelle rispettive città di provenienza, durante i tour con i Fugazi, e li ritrovò a Washington dove, ovviamente, frequentarono gli stessi ambienti. Gli ottimi show del quartetto lo convinsero a portarseli in studio per registrare un primo EP, pubblicato per la doppia etichetta Dischord/Hoover Limited, oggi irrecuperabile. Per questo, facilmente, i tre brani di quella registrazione trovarono poi degna rilocazione in coda a questo The Lurid Traversal Of Route 7, registrato nell’agosto 1993, da Geoff Turner, agli WGNS Studios.  

L’album è uno dei più intensi ed innovativi dell’intero catalogo Dischord. Il suono tipico dell’etichetta, con tutti i richiami fugaziani del caso, viene dilatato e rallentato senza perdere una briciola della propria furia espressiva, ed anzi acquisendo, attraverso la disarticolazione del linguaggio, una nuova dimensione di drammaticità, urgenza e rabbia. Distant è un pugno nei denti. Introdotto da un minaccioso feedback su cui il basso di Erskine si ritaglia subito un ruolo da protagonista, è un vero e proprio assalto alla tranquillità del cittadino. L’entrata di chitarre nevrotiche e sporchissime, che giocano su variazioni più o meno udibili dello stesso riff, e le voci lacerate, costantemente al limite della rottura, che mantengono comunque un’intenzione proto-melodica , fanno il resto, insieme con un drumming seccamente incisivo, incazzato e pure molto raffinato come la nuova scuola ormai esige. L’urgenza espressiva accompagna anche Pretender, un riff dissonante che letteralmente “rotola” in un ritornello invece molto quadrato, gustoso e per la carica che trasmette e per il lavoro ritmico, rivolto a continui stop e ripartenze a metà battuta.  

È però rallentando e dilatando che gli Hoover dimostrano tutta la loro rivoluzionaria importanza: Electrolux, portato oltre i sette minuti, poggia su uno splendido giro di basso incastonato in un difficile e spiazzante tempo di nove ottavi. Le chitarre si limitano ad orpelli squisitamente dissonanti quando la voce è sommessa, teatrale e riflessiva, ed esplodono invece in un clangore di distorsioni taglienti come rasoi quando i sussurri diventano urla da animale al macello. Le lunghe esplorazioni strumentali sono “introspettive”, nel senso che riguardano il dettaglio musicale e non la composizione in senso stretto. È così che, neanche fossero i Massive Attack, gli Hoover stanno sette minuti sullo stesso giro, scolpendolo una volta qui ed una là (si ascoltino, su tutto, gli slide ed i bending del basso), e inserendo inaspettate comparse (ad esempio la splendida tromba, sempre di Erskine) affinché l’inganno acustico sia plausibile ed efficace.   Il gusto per il dispari ritmico viene esibito anche nel ritornello convulso della successiva Shut, mentre Route 7 è uno strumentale di notevole caratura romantica e di indole descrittiva, dove il carattere notturno e riflessivo è sottolineato dal continuo canto di grilli in sottofondo agli arpeggi di chitarre e basso.  

Regulator Watts è un’altra perla assoluta. Capolavoro di intrecci ritmico/melodici, riesce a coniugare in un unico pezzo un’architettura di contrappunti prodigiosa ed una comunicatività all’opposto completamente figlia dell’istinto. C’è da perdersi, nel suo sviluppo, tra il trasporto puro e l’attenzione che un tempo ora in quattro quarti, ora in tre, ora in cinque richiede. Le coordinate cambiano ancora per Father, chitarre quasi inesistenti e basso invece pesantissimo a dirigere il tutto accompagnato da una batteria tutta tom e timpani che strizza l’occhio ai lontani Joy Division. Cable è qualcosa di vicino ad un blues, vagamente U.S. Maple nell’incedere sghembo e terribilmente efficace nella sua risoluzione tanto minimalista quanto feroce. Indovina ancora il momento la tromba di Erskine, che appare in un contesto quantomeno inusuale centrando in pieno il bersaglio.  

Ancora un giro di basso splendido sostiene la “lenta” Letter, mentre la successiva Cuts Like Drugs aspira, con Electrolux, al titolo di migliore del lotto. Sono i due pezzi che effettivamente, anche in chiave storica, rivendicano l’importanza maggiore. Indipendentemente dal fatto che entrambi superano i sette minuti di lunghezza e poggiano su un tempo dispari, è l’insieme del linguaggio espresso che travalica i confini del suono fugaziano e di Dischord in generale, arrogandosi l’indispensabile ruolo anarchico che nel rock, da sempre, spinge per rimettere in discussione ogni ordine stabilito.  

I tre pezzi posti in chiusura, come già detto, risalgono ad una registrazione precedente. Innegabile che un risultato leggermente meno compiuto li caratterizzi (Return è molto vicino ai modelli Dischord), ma anche che la personalità di questi quattro musicisti sia sufficiente a farli brillare comunque. La chiusura di Dries è, per esempio, talmente efficace nella sua furia da indurre a preparare una sacca verde piena di molotov. Usarle contro una Mercedes, una banca, una caserma o un genitore bigotto dipenderà poi dalle ambizioni dell’utente.   Gli Hoover, nella migliore tradizione del Distretto di Columbia, si sciolsero nel ’94 dopo un paio d’anni di attività. Una reunion è segnalata nel ’97 e testimoniata dall’incisione di un altro EP intitolato semplicemente Hoover, ancora una volta gradevolissimo e decisamente appetibile anche per la presenza della versione remixata di Electrolux.  

La storia del rock è pur sempre figlia della storia generale, soggetta quindi come la madre al revisionismo perpetuo. Questa recensione vorrebbe avere l’ardire di contribuire, in parte anche minima, al ripescaggio di un disco di quindici anni fa che mai ha avuto, dal pubblico men che meno, ma neppure da “certa” critica, il riconoscimento che meriterebbe. Lavori come questo, con tutti i limiti che possiamo riscontrargli, siano essi relativi alla produzione o alla peculiarità della proposta, sono inevitabilmente destinati a divenire opere di culto per l’appassionato del genere ma anche per qualsiasi ascoltatore interessato alla genesi delle sonorità, delle correnti, dei generi stessi. Ma può essere anche solo un disco da avere perché, semplicemente, se volessimo spogliare The Lurid Traversal Of Route 7 di tutti i suoi meriti storici, resterebbe in ogni caso un lavoro qualitativamente egregio, emozionalmente dirompente e socialmente pericoloso.

http://www.dischord.com/band/hoover            

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Voto degli utenti: 8,3/10 in media su 2 voti.
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C Commenti

Ci sono 2 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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bestropicalia (ha votato 8 questo disco) alle 10:44 del 25 dicembre 2009 ha scritto:

The Lurid Traversal

Gran disco veramente..

wago alle 22:55 del 27 dicembre 2009 ha scritto:

Complimenti per il ripescaggio, e' un disco molto bello di cui si parla troppo poco. Anche altri album dello stesso filone andrebbero ripresi..