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R Recensione

6,5/10

Queens of the Stone Age

Villains

Per uno strano incrocio di coincidenze, da qualche tempo a questa parte le due vecchie colonne dei Kyuss, John Garcia e Josh Homme, si ritrovano a marciare fianco a fianco, scegliendo di far debuttare le loro ultime uscite discografiche nello stesso anno: il che, anche se a distanza (com’è noto, i loro rapporti rimangono tutt’altro che idilliaci), legittima un abbozzo di paragone. Tornando indietro al 2013, ad esempio, i Queens Of The Stone Age riversavano nel loro migliore lavoro in dieci anni (“…Like Clockwork”) tutte le ansie e le preoccupazioni di una band ferma al palo da parecchio tempo, preda di innumerevoli turbolenze interne (la morte della storica tastierista Natasha Shneider, i gravi problemi di salute di Homme, la necessità di ricalibrare le alchimie di una line up rovesciata come un calzino) ed esterne (la modesta ricezione critica dell’obiettivamente brutto “Era Vulgaris”, 2007). Ciò che ne usciva era un disco sicuramente imperfetto, ma in non pochi frangenti realmente entusiasmante e, più importante ancora, nuovo. In casa Garcia, invece, dopo le fallimentari esperienze di Unida e Hermano, tutte le energie venivano concentrate su “Peace”, primo – e fortunatamente unico – act dei Vista Chino: una pallida riedizione dei Kyuss (già scomodati con la posticcia operazione nostalgia dei Kyuss Lives!) con quasi vent’anni di ritardo e nulla della brillantezza originaria.

Passano gli anni, non la sostanza. Garcia si è imbarcato in una modesta avventura solista che – pur grondando sincerità da ogni poro – non riesce a stornare del tutto il sospetto di una seppur minore autocelebrazione per i die hard fans (si veda il recente “The Coyote Who Spoke In Tongues”). Homme, dal canto suo, è in continua evoluzione: sempre più rockstar (sue le eccellenti chitarre del canto del cigno discografico di Iggy Pop, “Post Pop Depression”), sempre più mediatico (radio, tv, cabina di regia per i “nuovi” Arctic Monkeys), sempre più bizzoso (Chelsea Lauren è solo l’ultima ad averne saputo qualcosa…), sempre più ambizioso. Tant’è che per “Villains”, settimo capitolo in studio dei suoi QOTSA, le mani sul mixer le mette non uno qualunque, ma nientepopodimenoche mr. Mark Ronson, l’uomo di Amy Winehouse, Adele, Lady Gaga, Bruno Mars fra i tantissimi. Una scelta forte, altisonante, di rottura, come lo fu Bob Rock per i Metallica del “Black Album” o, più recentemente, Mike Elizondo per i Mastodon di “The Hunter”: una dichiarazione d’intenti che parla più forte della stessa musica, la limpida intenzione di travalicare una volta per tutte i confini del proprio genere d’appartenenza e mirare ad uno status, quello di “rock band” a tutto tondo, ufficialmente in via d’estinzione.

Ciò che salta immediatamente all’orecchio, aneddotica a parte, è che la parte più consistente del lavoro di Ronson non influisce tanto sulle coordinate musicali quanto, piuttosto, sulla direzione e sulla consistenza del suono in itself. Aldilà di una generale smussatura del dirompente impatto chitarristico (ma la sordina era già stata messa in più episodi di “…Like Clockwork”), a finire sotto i riflettori sono i pattern di Jon Theodore, che vengono spesso trattati e processati a mo’ di beat elettronici, senza l’esplosività e la volumetria delle batterie analogiche. L’“Uptown Funk” dei QOTSA, un’irresistibile riedizione funk-soul delle ossessioni mono-riff di “No One Knows” con Homme a gigioneggiare come un Sinatra sotto anfetamine, è “The Way You Used To Do”: un pezzo che conserva tutte le peculiarità formali del vecchio corso – melodia granitica, chitarre robotiche, ritmiche primitive – su di un sostrato di handclappin’ e pulsazioni r’n’b. Sorte simile tocca alla successiva “Domesticated Animals”, un paso doble stretto fra scansioni marziali e stortissime progressioni chitarristiche (ma con uno stacco centrale dal respiro epico e, soprattutto, una mesta chiusura sugli archi del Section Quartet): il preludio ideale ad una “Fortress” che prende forma da una nebulosa di synth e glissandi e si trasforma in una romantica (ma un filo involuta) cantilena psych rock.

C’è un aspetto fondamentale, nelle canzoni di “Villains”, che è stato troppo spesso – ingiustamente – sottovalutato: la performatività delle stesse, la loro dimensione barocca e a tratti teatrale. Un paradosso, per un disco che mirerebbe ad essere il più diretto e lineare possibile. Eppure – come sottolineava ancora Zoe Camp di Pitchfork – è una sensazione confermata dalle parole dello stesso Homme in un’intervista al New York Times: “Instead of a song that is like a merry-go-round, where you go around in circles and you know what’s going to happen, I want it to be more like a bus stop – you get on and you get off at a different location, and you’re kind of along for the ride”. “Popolare” non sempre è sinonimo di “facile”, né tantomeno di “banale”: quanto a concessioni facili, “Villains” non ne fa. Prova ne siano i primi due minuti in crescendo di “Feet Don’t Fail Me”, un inquieto blob goth di synth e cori schiaffeggiato dal contagiri di un devastante groove funk, un incalzare zigzagante che dà l’effettiva illusione della linea retta (ma le geometrie sbilenche delle chitarre raccontano tutta un’altra storia). L’assalto punk – quasi un feticcio del passato – parte solo quando lo ordina esplicitamente Homme, con un “here we come” che condiziona tutto l’ultimo minuto e mezzo di “The Evil Has Landed” (un sontuoso contenitore ‘70s rock che vagola tra istrionismi hard e seghettature black): per il resto, anche nei passaggi di meno concettosa elaborazione (il leggero rockabilly chimico di “Head Like A Haunted House”, le malinconiche striature glam della troppo lunga “Un-Reborn Again”), la barra è mantenuta costantemente dritta – alla perenne ricerca del dettaglio dissonante, dell’arrangiamento sottilmente complesso, della soluzione solo apparentemente immediata. È la chiusura, affidata all’epica sontuosa di “Villains Of Circumstance” – un viaggio imponente, che dal minimalismo della piano ballad sfocia in un uragano desert-psych –, a segnare il definitivo punto di non ritorno.

Dieci anni fa, scrivendo di “Era Vulgaris”, il nostro Alessandro Pascale diceva che “non si potrebbe mai accettare un disco pop-rock convenzionale dai Queens of the Stone Age”. Difatti “Villains”, che pure al pop rock ci arriva, lo fa in modo del tutto sui generis, se vogliamo anticonvenzionale: merito di un leader dalle idee adamantine e di una line up insuperabile per compattezza e precisione (se possibile, e a costo di attirare le ire dei puristi, meglio anche di quella di “Songs For The Deaf”). “Villains”, nei pregi e nei difetti, è il perfetto completamento di “…Like Clockwork”, proprio perché vive del medesimo, curioso dinamismo: ciò che muove la mano di Homme e che manca da troppo tempo nelle riserve di Garcia.

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Voto degli utenti: 5,8/10 in media su 2 voti.
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zagor 6/10
Dengler 5,5/10

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zagor (ha votato 6 questo disco) alle 18:50 del 22 dicembre 2017 ha scritto:

Grande rece. Ormai Homme si sta sempre piu' infighettando, resta giusto qualche sprazzo rock alla ZZ TOP (influenza che è cresciuta parecchio negli ultimi dischi) e la capacità di forgiare ritornelli killer. Fortress il brano migliore.