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R Recensione

8/10

Mariposa

Semmai Semiplay

Sempre detto che gli pterodattili hanno una marcia in più sugli altri lucertoloni preistorici di giurassica memoria. Non solo perché sono stati gli unici esseri viventi, a memoria d’uomo, a poter essere definiti contemporaneamente “uccelli-rettili” (che è un po’ come dire “Berlusconi-comunista”, solo traslitterato nel linguaggio spiccatamente arido della zoologia). E nemmeno perché i suoi – ricostruiti – tratti fisiognomici ci restituiscono un mostro alato tanto brutto e sgraziato da non poter non scatenare, per concatenazione, una sorta di empatia diacronica. Pare infatti che, mentre tutti i suoi colleghi terrestri erano impegnati ad estinguersi sotto le polveri di un sasso gigante a spasso nello spazio, lo pterodattilo sia stato l’unico a non mollare il colpo. Tant’è che, così riporta la leggenda, l’ultimo esemplare si sia catapultato fuori da una roccia inavvertitamente frantumata da due operai francesi, impegnati nella costruzione di un tratto di galleria stradale, nel 1856, salvo poi stramazzare a terra, leggermente provato da un immobilismo forzato di qualche era geologica. Capita.

Sempre detto che i Mariposa hanno una marcia in più. Non solo perché hanno una propria etichetta attiva da anni, la Trovarobato (ce ne ha una pure Pino Scotto, figuriamoci). E nemmeno perché, in veste di arrangiatore ed addetto polistrumentista, hanno uno che si chiama Enrico Gabrielli, che non è Vasco Brondi, né Cristiano Godano (con tutto il rispetto per Godano, si sottintende: anche la penultima versione poetica e lambiccata). Pare infatti che, mentre il pop italiano si divideva tra importanti concentrazioni cantautorali, rientranti grumi di indie raffazzonato – quello dal ritornello cangiante, dalla strumentazione ricca e dal contenuto frivolo, tanto per inquadrarlo – e cicliche, morbose occhiate alla classifica, i Mariposa siano stati gli unici a non mollare il colpo. Anzi: a moltiplicare gli sforzi. Uno, due, tre, cinque, undici? (Quasi) un disco all’anno, per undici anni. Vi stupite? Perché stupirsi? Forse che il mestiere di musicista non sia davvero più un mestiere, ma un semplice hobby da parrucchiere dopolavorista? Mariposa vuol dire farfalla, in spagnolo, ma sulla copertina di “Semmai Semiplay” loro ci hanno messo, touché, uno pterodattilo. Capita.

Basterà dire che quest’ennesima prova in studio, e gli undici pugnali lanciati in direzione dell’ascoltatore, sono un calderone in ebollizione. Cultura alta e bassa, citazioni raffinate e irresistibile kitsch anni ’80, le spettacolarità pirotecniche dell’art pop e i divertissement che solo i grandi artisti possono riuscire ad ammantare di credibilità. Arriva ben presto il punto in cui l’orecchio è palesemente intrattenuto dall’ascolto, ma non sa da dove partire per descriverlo. Le sensazioni di dejà vu si fanno sotto e si avvolgono in un manto iconoclasta che le rende nuove, diverse, irriconoscibili. Le canzoni di “Semmai Semiplay” sono leggere, svagate, disimpegnate, ma basta un’allusione, un cambiamento di umore, il profilarsi all’orizzonte di un’improvvisa stratificazione ed ecco che si allungano, gigioneggiano, spiazzano, si sviluppano continuamente in altezza e paradosso. Quello che, insomma, avrebbe dovuto essere un lavoro di ordinaria amministrazione, spicca il volo e si rivela polimorfo in ogni suo anfratto, arrogante e presuntuoso nel suo atteggiamento di coinvolgimento agonistico verso il proprio relatore in cuffia.

Sfida dev’essere, sfida sia. Parte “Pterodattili”, ed i primi Baustelle che omaggiavano l’elettro pop sono costretti a rincorrere il nonsense via classici 4/4 disco, di quelli persino addobbati da violino e glitch sul fondo, trovando un buon compromesso tra affitto e metratura. Coordinate non coordinate mettono a soqquadro l’apparentemente semplice runaway di “Chambre”, un tarantolato synth rock che prende per il culo i borghesismi intellettuali di chi valuta la grandezza del proprio operato sulla base di quanta letteratura ai più sconosciuta riesce a metabolizzare (“Dai, ma vieni e stammi vicino! Dai, che è brutto litigare da solo! Dai, non parlo più il francese, lo giuro! Dai, che voglio ascoltare con te Semmai Semiplay!”), rivoltano come un calzino la pacchianata di “Paesaggio Indoor” – interamente congegnata su una tastierina Casio – e affiancano cori e slide western ad uno xilofono twee in “Con Grande Stile”, probabilmente il punto focale dove più si biforcano perplessità e rimostranze sull’effettiva solidità di quanto proposto.

Dubbi scemi. Perché scemo è il disco. Mai, come in questo caso, l’aggettivo ha voluto avere semplice funzione descrittiva, totalmente avulsa da ogni sfumatura dispregiativa. Scemo nelle atmosfere, ma soprattutto negli accostamenti, che è radicalmente diverso dal definirlo un semplice esercizio di stravaganza o di assurdità. “Eccetera Eccetera” mette in scena – è il caso di dirlo – uno spoken word a strapiombo nello stream of consciousness letterario, sfrondato da campanelli e cupi rotolii di archi: il risultato è così illogico da muovere, invero, persino all’inquietudine. “Come Un Cane” è la riflessione introspettiva di coppia che i Non Voglio Che Clara, anche solo per scelta linguistica, avrebbero potuto scrivere nel prossimo futuro. Se da una parte si sceglie di procedere su traversine tutto sommato contemporanee alla tradizione popolare del Bel Paese, netto è il taglio di “Ma Solo Un Lago”, che si apre come una filastrocca e scivola, frame by frame, in un indefinito orizzonte di irreale psichedelia canterburiana, spettacolare monumento all’amor fati di Wyatt.

Ma perché canto se non ho un cazzo di voglia di cantare?”, si chiedono i Mariposa nel break centrale del singolo “Tre Mosse”, sfondamento definitivo della quarta parete e simbiosi definitiva con l’uditorio. Difatti spesso lo strumento sopravanza la voce, o lo stesso timbro vocale è manipolato a guisa di strumento (come accade nella già ricordata “Eccetera Eccetera”). Il punto di arrivo più alto di questa rinuncia al cantato, alla linea melodica tipicamente “italiana”, è l’arrembaggio noir di “Black Baby Hallucination”, quasi otto minuti passati a girare per la Milano di Scerbanenco con una telecamera in mano (“Che cazzo t’hanno fatto, amore mio? Che cazzo t’hanno fatto, amore mio?”) ed una stritolante fuga centrifuga prog-jazz per fiati e tastiere destinata a schiantarsi contro un muro tribale di percussioni in crescendo continuo, lezione perfettamente assimilata dai non-solo-enciclopedici Calibro 35. Così “Semmai Semiplay” si libera definitivamente del vestitino castigato da parrocchia e brucia in una vampa di dannata seduzione.

Ed ora, un brindisi. Ci ubriacheremo? Capita.

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C Commenti

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REBBY alle 16:58 del 27 maggio 2011 ha scritto:

"Ed ora un brindisi. Ci ubriacheremo? Capita."

Capitava di sicuro al recente concerto fatto a Torino dalla band (fonte Il mucchio): 18 ascoltatori e 2 baristi eheh Chissà dov'era Fab?

bill_carson alle 14:50 del 30 maggio 2011 ha scritto:

vorrei tanto mi piacessero

amo il loro approccio creativo, ma probabilmente faccio fatica a tollerare voce e testi

Charisteas (ha votato 8 questo disco) alle 15:37 del 30 giugno 2011 ha scritto:

Grande disco, Pterodattili è la mia canzone del 2011