Devendra Banhart
What will we be
Alcune volte fa male. Perché il pensiero va subito a quelli che sogghigneranno di soddisfazione pensando: “l’avevo detto, io!”. Allora togliamoci il dente subito, questo nuovo disco di Devendra Banhart sembra dar ragione a coloro che lo reputavano l’ennesimo bluff del sottobosco indie americano.
Devendra Banhart, 28 anni e mai un colpo a vuoto (dagli esordi freak al folk essenziale di “Rejoicing in the hands” fino agli arrangiamenti multicolore di “Cripple Crow”), questa volta non convince. Il suo primo album su major (sarà loro la colpa?) è un innocuo e raffazzonato pastiche di suoni che mancano di ispirazione e probabilmente anche di genuinità. La sensazione che scaturisce dalle 14 tracce di “What will we be” è quella di trovarsi di fronte ad un disco assemblato esclusivamente per compiacere. Non si spiegherebbe in altro modo la presenza di un singolo (“Baby”) che è un funky-reggae talmente banale e “discreto” da poter accompagnare gli aperitivi estivi di Porto Cervo. E poco dopo il barbuto californiano arriva a fare di peggio, quando “Chin Chin & Muck Muck” maschera con un sax ruffiano una melodia da carillon-jazz talmente piatta che nemmeno la consueta ironia (il la-la-la biascicato nel finale) riesce a salvare. Non che Banhart non ci provi, il fatto è che si assesta sui suoi soliti canoni senza mai riuscire a ripeterne i risultati: i suoni seventies di “Rats” non vanno da nessuna parte, al punto da far rimpiangere il side-project Megapuss, allo stesso modo i fumi psichedelici di “Maria Lionza” sembrano arrivare da un processo di copia-incolla del tutto improvvisato.
Un risultato inspiegabile, se consideriamo la caratura dell’autore, il prestigio dei collaboratori (che sono sempre i soliti, da Noah Georgeson a Andy Cabic dei Vetiver fino a Greg Rogove dei già citati Megapuss), e l’ottima produzione di Paul Butler, capace di preservare l’effetto “lo-fi” pur compiendo un gran lavoro di bilanciamento timbrico e pulizia sonora. E – ancora – non manca neanche la consueta voglia di sperimentare, di esplorare sonorità nuove: dal roots-reaggae di “Foolin” al divertente esperimento “Devendra meets Roxy Music”(!) di “16th & Valencia Roxy Music”.
Insomma, è tutto al posto giusto ma – incredibilmente – quello che manca è proprio Devendra. Quasi del tutto. Perché nei rari momenti in cui si ripresenta per quello che è (un cantautore dalle capacità straordinarie, è bene ribadirlo), è tutta un’altra musica. La seconda parte di “Angelika”, una bossa indolente cantata (evviva!) in spagnolo e punteggiata da precise note di pianoforte, il rock acustico figlio degli anni ’60 di “Goin’ Back” e soprattutto l’accoppiata composta da “First song for B” (con quel crescendo di piano teso e “post-rock” mentre lui canta “Please destroy me” – ovvero come salvare un disco intero in un minuto e trentadue secondi) e “Last song for B”, tenue ballata acustica soffocata e sofferta fino all’ultima nota. Disastro scampato per un soffio, però – Devendra – accetta un consiglio: questo è “What won’t it be”.
Internet -
http://www.myspace.com/devendrabanhart
Video -
"Baby" - http://www.youtube.com/watch?v=dSf9lAg9h0Q
"Last song for B" - http://www.youtube.com/watch?v=TAde4cmtpK8
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