Grandaddy
Last place
Computer e galline. Il mio personale immaginario della musica dei Grandaddy si può (molto) sinteticamente riassumere in questi due termini. Mi sembra di vederlo Jason Lytle, dopo avere finito il lavoro agreste nella fattoria del Montana, sedersi a comporre su un sintetizzatore analogico e registrare la sua voce un pò narcolessica, un po malinconica, su un demo da spedire per un giudizio ai membri del fan club. Naturalmente tutto inventato.
I californiani Grandaddy, sebbene da sempre immersi in un mondo a cartoni animati e in quei collage kitch che campeggiano sulle loro copertine, sono stati una delle più belle sorgenti di musica statunitense degli anni 90, partiti indie e diventati incrocio esemplare fra country rock, pop ed elettronica, ben rappresentato dai loro migliori lavori Under The Western Freeway (1997) e The Sophtware Slump (2000), seguiti dai minori Sumday(2003) e Just Like The Fambly Cat (2006). Da quellanno, fine delle trasmissioni, dispersione dei componenti, e via ad una carriera solista sottotono di Lytle sulla scia del gruppo madre. Fa quindi estremo piacere ritrovarli dieci anni dopo, nel bel mezzo di una reunion esattamente là dove ci si era lasciati, con un ritorno inatteso della originale formazione con Jason Lyte (voce, chitarre), Tim Dryden (tastiere), Jim Fairchild (chitarra), Kevin Garcia (basso) e Aaron Burtch (batteria), ed un nuovo pacchetto di esempi di artigianato pop che non sfigurano rispetto ai vecchi lavori. Magari mancano, in Last place, i colpi di genio come il coro di miao di When im anymore, che svettava al centro dellultimo lavoro, ed inevitabilmente leffetto novità che ammantava i primi due album, si è tramutato in un agrodolce sapore vintage, ma le cose apprezzabili non mancano. Cè, in apertura, il singolo Way we want, un power rock che si impenna in una contagiosa onda elettronica, ci sono gli arpeggi sintetici che sostituiscono le chitarre indie di Brush with the Wild, e le più scure trame tutte elettroniche di Evermore. Cè il pop puro in stile XTC di The boat is in the barn, forse il pezzo migliore, e quello meno nobile di Thats what you get for gettinoutta bed, le reminiscenze punk di Chek Injin, quelle velvettiane di I dont live here anymore. Cè lo svolgimento epico di This is the part accompagnata da un sottofondo di archi, cèLost machine, che trasporta il falsetto di Neil Young in un avvolgente scenario elettronico.Songbird Son, lultima canzone, un quadretto acustico sotto la cui veste superficie ribolle un mondo pullulante di blips, conclude nel modo più dolce e conciliante questo inatteso e gradito ritorno.
Rispetto a dieci anni fa non si sono spostati di molto i Grandaddy. Ma chi li voleva da unaltra parte?
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