Clap Your Hands Say Yeah!
Some Loud Thunder
Un paio d’anni fa il passaparola dei blogger e il potere delle webzine trasformarono i Clap Your Hands Say Yeah da anonima band, che nessuna etichetta aveva avuto il coraggio di accollarsi, a celebrata next big thing della scena statunitense. Fu uno dei più brillanti esempi di “democrazia diretta” nel mondo della musica e l’intrigante genesi delle loro fortune ce li rese ancora più irresistibili di quanto già non lo facesse la loro musica. L’esordio self-titled aveva conquistato per la capacità di incastonare piccole gemme di genio e sregolatezza, in primis la voce sfasata di Alec Ounsworth, dentro le strutture ben collaudate della new wave. Da allora li aspettavamo al varco della seconda prova, ma a quanto pare sono stati loro a sorprenderci alle spalle. Perché in questo nuovo “Some Loud Thunder” tutto suona più discorde, irresoluto, volutamente evasivo.
La scelta evidente è quella di tagliarsi i ponti alle spalle, abbandonare qualsivoglia tentazione mainstream per farsi più cerebrali, gettando uno sguardo verso le atmosfere psych-folk che hanno recentemente elevato agli altari i loro concittadini Animal Collective e l’ambiente canadese che si muove attorno agli Arcade Fire. Ed allora le chitarre elettriche vanno in secondo piano, la sezione ritmica si muove sui controtempi e gli spunti brillanti e serrati che ci saremmo attesi si dilatano invece in ballate dalla struttura asimmetrica.
Il terreno è inevitabilmente più accidentato e la vena dei CYHSY sembra soffrirne parecchio già nell’apertura forzatamente lo-fi della title-track, per poi continuare a corrente alternata, pur trovando nella notevole “Emily Jean Stock” la dimostrazione che il talento scova sempre il modo di venir fuori.
Da questo schema, tutt’altro che esaustivo, i Clap Your Hands Say Yeah si discostano significativamente in almeno un paio di occasioni, che risultano anche le più accattivanti ai primi ascolti. “Satan Said Dance” è una cavalcata lisergica tra funky, acid-rock ed elettronica, che strizza l’occhio alle sonorità più allucinate di Yorke e compagni, mentre il timbro anarcoide di Ounsworth trova il palcoscenico perfetto nelle progressioni di “Yankee Go Home” con chitarre ora blues ,ora decisamente rock a fargli da spalla.
Si potrebbe in gran parte ascrivere alla mano del nuovo (e loro primo) produttore Dave Fridmann, ex Mercury Rev, la difformità evidente di questo album rispetto a ciò che lo ha preceduto. Ma si farebbe sicuramente torto ai CYHSY, che hanno chiaramente e coraggiosamente scelto di declinare importanti elementi di discontinuità nella loro proposta musicale già al secondo album. Di certo manca l’appeal e la vitalità degli esordi o forse, semplicemente, questa volta manca il gusto della sorpresa. Ma sarà difficile fargliene una colpa.
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