R Recensione

7/10

Clap Your Hands Say Yeah!

Some Loud Thunder

Un paio d’anni fa il passaparola dei blogger e il potere delle webzine trasformarono i Clap Your Hands Say Yeah da anonima band, che nessuna etichetta aveva avuto il coraggio di accollarsi, a celebrata next big thing della scena statunitense. Fu uno dei più brillanti esempi di “democrazia diretta” nel mondo della musica e l’intrigante genesi delle loro fortune ce li rese ancora più irresistibili di quanto già non lo facesse la loro musica. L’esordio self-titled aveva conquistato per la capacità di incastonare piccole gemme di genio e sregolatezza, in primis la voce sfasata di Alec Ounsworth, dentro le strutture ben collaudate della new wave. Da allora li aspettavamo al varco della seconda prova, ma a quanto pare sono stati loro a sorprenderci alle spalle. Perché in questo nuovo “Some Loud Thunder” tutto suona più discorde, irresoluto, volutamente evasivo.

La scelta evidente è quella di tagliarsi i ponti alle spalle, abbandonare qualsivoglia tentazione mainstream per farsi più cerebrali, gettando uno sguardo verso le atmosfere psych-folk che hanno recentemente elevato agli altari i loro concittadini Animal Collective e l’ambiente canadese che si muove attorno agli Arcade Fire. Ed allora le chitarre elettriche vanno in secondo piano, la sezione ritmica si muove sui controtempi e gli spunti brillanti e serrati che ci saremmo attesi si dilatano invece in ballate dalla struttura asimmetrica.

Il terreno è inevitabilmente più accidentato e la vena dei CYHSY sembra soffrirne parecchio già nell’apertura forzatamente lo-fi della title-track, per poi continuare a corrente alternata, pur trovando nella notevole “Emily Jean Stock” la dimostrazione che il talento scova sempre il modo di venir fuori.

Da questo schema, tutt’altro che esaustivo, i Clap Your Hands Say Yeah si discostano significativamente in almeno un paio di occasioni, che risultano anche le più accattivanti ai primi ascolti. “Satan Said Dance” è una cavalcata lisergica tra funky, acid-rock ed elettronica, che strizza l’occhio alle sonorità più allucinate di Yorke e compagni, mentre il timbro anarcoide di Ounsworth trova il palcoscenico perfetto nelle progressioni di “Yankee Go Home” con chitarre ora blues ,ora decisamente rock a fargli da spalla.

 

Si potrebbe in gran parte ascrivere alla mano del nuovo (e loro primo) produttore Dave Fridmann, ex Mercury Rev, la difformità evidente di questo album rispetto a ciò che lo ha preceduto. Ma si farebbe sicuramente torto ai CYHSY, che hanno chiaramente e coraggiosamente scelto di declinare importanti elementi di discontinuità nella loro proposta musicale già al secondo album. Di certo manca l’appeal e la vitalità degli esordi o forse, semplicemente, questa volta manca il gusto della sorpresa. Ma sarà difficile fargliene una colpa.

V Voti

Voto degli utenti: 7,8/10 in media su 10 voti.
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Miro 8/10
Vikk 7/10
gogol 8/10
londra 9/10
REBBY 8/10

C Commenti

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Vikk (ha votato 7 questo disco) alle 14:40 del 2 novembre 2007 ha scritto:

degno successore del debut che si spinge verso nuovi lidi

Direi che non manca la vitalita' dell'esordio, ma piuttosto e' palese che ci troviamo di fronte ad un disco di transizione che taglia i ponti con il passato, ma ancora incerto su che strada intraprendere. Il disco contiene almeno 3 classici: il pezzo di apertura, quello di chiusura (dannatamente alla Cure!!) e la "vecchia" "Satan Said Dance" che gia' proponevano live un paio di anni prima