R Recensione

7/10

Loney, Dear

Dear John

Chi li conosce lo sa. I Loney, Dear non producono semplici composizioni indie pop: i quadretti pennellati dallo svedese Emil Svanängen sono veri e proprio distillati melodici ad alto contenuto di saccarosio, monumentali costruzioni in pongo colorato su cui il nostro si inerpica sull'onda di un falsetto degne dei sogni più bagnati dei fratelli Gibb.

Chi l'ha sentito dal vivo lo sa ancora meglio. Quando sale sul palco Svanängen non si limita a riproporre la scaletta dei dischi, proprio no. Frammenta e tritura quelle melodie trasformandole in cinguettii in minore, scomponendole in molecole pop che coinvolgono il pubblico in improvvisate prove contrappustiche.

La canzone è solo un simulacro, un contenitore per un'esercizio di catarsi pop agrodolce che può infastidire ma non annoiare. Il mood è sempre quello, sospeso tra un melodramma dissipato in ambienti sintetici da revival synth pop e i saliscendi melodici di una liturgia twee.

E qui siamo al terzo disco. Ahhh, il difficile terzo disco. Il disco del bivio, della svolta o il disco della maniera ? Nessuna delle due cose ed entrambe.

Dear John è sicuramente un disco autoreferenziale, ripiegato su uno stile ormai riconoscibile ed una tradizione indie pop ben definita: i Loney, Dear non rinunciano alle proprie virtù, e d'altra parte perchè dovrebbero ?

Allo stesso tempo Svanängen sembra volersi sbilanciare un po' di più, qua e là: l'apertura col botto di Airport Surroundings ha tutti i crismi per non far rimpiangere il passato, ma si spinge un po' più in là sui sentieri di silicio dell'arrangiamento sintetico. Il cambiamento è comunque più apparente che reale, la canzone è solo un simulacro e la sostanza melodica resta intatta. E' comunque una partenza che fa ben sperare, che ci fa presagire un disco all'altezza dei precedenti.

La profezia e la speranza vengono in parte frustrate da ciò che segue: forma e sostanza perdono un po' di amalgama nell'impasto sonoro cinematico di Everything Turns To You, mentre per contrasto il quadretto si fa eccessivamente spoglio in una glabra I Was Only Going Out, un po' monocorde e statica anche nelle parti più dense.

Poco importa comunque: in fondo sono solo annotazioni puntigliose su un disco che non ha bisogno di spiegazioni: il crescendo di Hash Words, il synht pop pulsante di Summers e il rito pagano di Distant puntano dritti all'epidermide e penetrano immediatamente la scorza dura delle nostre pellaccie ciniche.

E non dispiacciono in fondo nemmeno le inaspettate basi eurodance di Under a Silent Sea, la pellicola glaciale che avvolge come una glassa il confetto I Got Lost e le derive funeree di Harm.

Violent è uno shoegaze che di certo non stona con le riscoperte sonore di questi ultimi due anni, mentre la titletrack è un trionfo di neoclassicismo pop, accorato ma armonioso, barocco ma parco, nonostante la banda di paese che giunge a metà strada a dare man forte al nostro.

Che di aiuti, in fondo, non ha bisogno. Difficile terzo disco e l'incantesimo tiene: magari un po' meno solidi che in passato, forse un po' in difficoltà qua e là e con l'effetto sorpresa ormai perduto. E manca, diciamolo, una nuova Saturday Waits.

Ma poco importa: i Loney, Dear tengono saldamente in cinta il loro titolo di pesi massimi dell'indie-twee-pop.

Con pochi sfidanti all'altezza, almeno per ora.

V Voti

Voto degli utenti: 6/10 in media su 4 voti.
10
9,5
9
8,5
8
7,5
7
6,5
6
5,5
5
4,5
4
3,5
3
2,5
2
1,5
1
0,5
target 6/10
REBBY 5/10

C Commenti

Ci sono 3 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.

target (ha votato 6 questo disco) alle 12:24 del 26 febbraio 2009 ha scritto:

Dear stefano

A me sembra un disco molto più scuro dello scorso, meno campanellante. E perciò mi piaciucchia. E visto che mi appassiono chissà-poi-perché-ma-mo'-me-tocco-per-sicurezza alle "derive funeree", trovo "Harm/slow" il pezzo di grandissima lunga, di granlughissima, migliore qui dentro: ha qualcosa di certi Radiohead scuri da musica di uscita per un film mescolati agli ultimi Notwist bluastri e infilati dentro a un carillon ottocentesco dimenticato in un canterano roso dai tarli. E potrei continuare. Bella bella.

DonJunio (ha votato 6 questo disco) alle 13:46 del primo marzo 2009 ha scritto:

Ho un debole per loro, purtroppo non credo abbiano fatto il salto di qualità che mi sarei aspettato dopo il promettente "Loney, Noir",a ccontendandosi di tirare un po' a campare. Peccato.

REBBY (ha votato 5 questo disco) alle 10:08 del 2 marzo 2009 ha scritto:

Scelgo Summers, che in verità non è molto diversa

dal paio di canzoni che avevo scelto dall'album

precedente, ma alla fine è quella che mi piace di più. Alcuni brani li trovo stucchevoli. Per dirla

alla Benoit: dal 5 al 6.