Matia Bazar
Tango
Per ironia della sorte, il capolavoro del synth-pop nostrano proviene da una band che, fino all82, di sintetico non aveva proprio unacca. Come poteva, daltronde? Nel 1976, anno di nascita dei Matia Bazar, in Italia era consentito parlare musicalmente solo tre lingue: cantautorato, progressive di quarta mano, o un soave quanto indistinto soft pop (Homo Sapiens, Santo California, Giardino Dei Semplici) sovraccarico di provincialismi che sarà, per oltre un lustro, la strada prescelta dalla band genovese (si ascoltino la pinkfloydiana Cavallo Bianco o Per UnOra DAmore, piccoli gioielli di questa prima fase). Litalo-disco era allo stadio embrionale (per usare un eufemismo ), non ci sono santi. Battiato ancora non aveva ancora messo mano alla sua rivoluzione copernicana del pop della penisola. Battisti era impantanato in un adocchiante spaghetti-soul (Ancora Tu ne è l'archetipo) lontano eoni dalla poesia elettro-melò di Don Giovanni, primo atto della collaborazione con Pasquale Panella.
Eppure già dal 78 le cose iniziavano a cambiare leggermente, con i primi recepimenti di istanze punk e new wave (Fausto, i Chrisma di Chinese Restaurant questultimo addirittura del 77 (!) , il germogliare della scena post-punk avantgarde di Pordenone) e linizio della nostra marcia danzante, domiciliata alla leggendaria discoteca Cosmic sul Lago di Garda, che con Capricorn e Klein & MBO avrebbe attecchito in tutta Europa e perfino negli States. Da quel momento, i Matia Bazar non hanno più alcuna scusante per giustificare il declino che li ha portati allindecenza de Il Tempo Del Sole (1980), ben oltre il sottile confine che separa il kitsch dal trash puro e semplice.
Bisognerà però aspettare altri due anni per vedere il gruppo allontanarsi dai luoghi comuni italo più abbietti, con la metamorfosi euro-synth per quanto ancora ingenua e fin troppo sbandierata di Berlino, Parigi, Londra (82). E pensare che bastava giusto un piccolo aggiustamento nella formazione: fuori il bomber di banalità Piero Cassano (per lui un luminoso e nauseante futuro come autore/produttore di Eros Ramazzotti), dentro Mario Sabbione, homo machina sbucato dal sogno bagnato di William Borroughs. In capo a un anno, lo scontro fra la sua intellighenzia elettronica e linossidabile melodismo al tricolore degli altri Matia avrebbe sortito effetti a dir poco stupefacenti.
Su Tango (1983, prodotto da Roberto Colombo) il gruppo gioca la carta della sperimentazione sul formato pop, e fa un centro stratosferico. La line-up, oltre a Sabbione e il suo lessico di interferenze al sequencer, sonagli elettronici e rutilanti bleeps, comprende i veterani Aldo Stellita al contrabbasso elettrico, Carlo Marrale a tastiere e chitarre, Giancarlo Golzi (membro dei Museo Rosenbach nei primissimi 70s) ai drum pad e ovviamente Antonella Ruggiero dolce creatura sospesa fra La Norma di Bellini e gli acuti exotici dellinarrivabile Yma Sumac ai vocals. Salutare soprattutto per lei il cambio di contesto e di look: via laria da hippy riccioluta, largo invece a uno stile minimale, geometrizzato, sprizzante charme aristocratico da diva del muto tuttaltro che muta.
Pavoneggiarsi del/nel declino. Dolce vita che te ne vai fra rovine tempestate di lustrini e paillettes. Lugola della Ruggiero che straborda in visibilio repentino, violaceo candore, tuonare di cristallo. Vacanze Romane, nonostante quasi due decenni di rovinosi karaoke a cresime e matrimoni, resta incantevole mosaico di corpuscoli luminosi, nostalgico mutante, quadretto senza tempo che unisce Nino Rota, Esquivel e Ultravox. Capolavoro da riscoprire, senza pregiudizi.
Terminato lincipit, ecco Palestina con i suoi incastri arditi, cadaveri etno-pop (tipo il Peter Gabriel di IV) sparsi sull' "asfalto lucido" di Düsseldorf ma che, dissezionati, rivelano litalico cuore melodico; poi leurodisco ipercinetica Elettrochoc, ghiaccio rococò al gusto Yellow Magic Orchestra; poi ancora le rarefazioni oniriche di Intellighenzia (arpeggi in chorus, canto maligno della Ruggiero, sofisticazioni dambiente alla Japan, fischiettii morriconiani) e il melodiare sibillino di Scacco Un Po Matto, europop dalla lega in titanio che rimpasta i New Musik secondo il ricettacolo prog di casa Genesis.
Il Video Sono Io proietta tribalismo androide e sospiri al laser; un Videodrome fattosi lingua biforcuta, nonché ideale scorciatoia per la biforcazione ultima Tango/I Bambini Di Poi: la prima mantide religiosa a pois alle prese con antichi passi di danza, la seconda un po timida filastrocca nei pressi de Le Orme, un po salmo apocalittico vagamente OMD. Punto e a capo.
Sconcerta, in Tango, la concentrazione di materia, la densità delle textures: ogni brano è un puzzle di suoni, fascio di melodie/ritmi fratturati e iperbolicamente rifratti. Anche i testi di Stellita (alcuni scritti con Marco Guzzetti, collaboratore dei Matia già dal 1981) si adeguano ai tempi, facendosi giocosi cut-up, lingua manipolata come pongo fresco: Milongami un po col dittongo tuo/ gira su te che fai girare me/ con passo lento e malizioso/ magari un po gitano e demodé ( )/ Tangami un po coi tuoi baci se vuoi/ svuotami un po la testa che non ho/ è un tango profumato di rosè ( ).
Alla vigilia dellinterlocutorio Aristocratica (1984), Sabbione lasciava i Matia Bazar per collaborare con i Litfiba (ma chi glielaveva fatto fare? Chi, dico io?) e coltivare sonorità elettro-mediterranee col gruppo interdisciplinare Melodrama, fondato assieme alla contralto Mariacinzia Bauci. Con lui se ne andava gran parte dellestro creativo, della voglia di osare, e non cè Melancholia (album del 1985 da molti considerato pari, se non superiore a Tango) che riesca a convincermi del contrario. Lunico, grande capolavoro dei Matia Bazar sta qui, nel ballo più passionale e finanche più automatizzato del globo: Tango come abbraccio di manichini alla De Chirico, cerimoniale di rose farlocche e segnaletica stradale, cilindro ricolmo di vocoder a far le veci di vecchi grammofoni e organetti di barberia. Vedi un po tu come sono gli eroi squilla la Ruggiero in coda al disco: nessun eroe per fortuna fra i Matia, soltanto artisti capaci di importare nel nostro paese un linguaggio inedito e tramutarlo in qualcosa di assolutamente peculiare, profondamente italiano eppure aperto al mondo, esente da provincialismi. Quello che la musica italiana dovrebbe essere più spesso.
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