Adam Green & Binki Shapiro

Adam Green & Binki Shapiro

Ho comprato questo disco il giorno di san Valentino perché sostanzialmente stavo una merda e avevo un bisogno fisico di canzoni allegre. Ecco. Torno a casa, scarto il cellophane, noto il libretto con i testi, scruto dentro la fessura del packaging cartonato. Manca il cd.

Binki Shapiro è stata la voce dei Little Joy, la band con cui Fab Moretti ha staccato dagli Strokes negli anni in cui girava male (sono tornati quelli in cui gira bene, ora, sì?). E la sua voce sonnacchiosa era perfetta, in quell’unico disco: l’indie pop del sole quotidiano e del relax venato di nostalgia portoghese, dei tre accordi in vago lo-fi che dondolano come un’altalena al mare, sottopelle una dolce malinconia per la sera che scende. Adam Green, che di lavoro faceva il cantautore indie rock piacione, e pure con un certo successo, ha deciso di innamorarsi di quella piccola gioia rétro. Ed ecco questo disco.

Che è un album fotografico sixties sfogliato con indolenza tra i suoi colori sbiaditi. Le due voci si allacciano per piccole danze in ¾ dal passo orchestrale old-fashioned (“Here I Am”), ammicchi Nancy Sinatra (“What’s the Reward”), quadretti pop fuori dal tempo con residui ye-ye (“Just To Make Me Feel Good”), arrangiamenti vintage per finti drammoni sentimentali glassati di synth (“Casanova”), su una batteria in costante spazzolamento, arpeggi da cameretta (“Don’t You Want Me To”), e, certo, molta ironia in formato twee (“Pity Love”, “Pleasantries”). Si va sopra i tre minuti – e di poco – soltanto in due pezzi, mentre l’album scorre leggerissimo, senza prendersi sul serio mai. E qua e là, così, finisce per incantare con una melodia tra tante (“Don’t Ask For More”).

Il giorno dopo, con evidente imbarazzo, torno nel negozio. Il proprietario se la ride («ogni tanto capita») e mi dà una copia con il cd dentro. «Spero almeno che non fosse un regalo», mi fa. «No, no, peggio: era per me». Just to make me feel good.

E funziona.