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R Recensione

9/10

Landberk

Indian Summer

"Landberk: diario di una (breve) estate indiana"   

Di mistificazioni e di altri misfatti

Per un mero errore di catalogazione (oh, fatale errore!), gli svedesi Landberk sono finiti nel bel mezzo di liste di dischi destinati ad un mercato di nicchia; dischi che ben poco avevano in comune con almeno due dei loro lavori in studio. Forse all’inizio questa band ha puntato troppo in basso, ponendosi come unico obiettivo la riproposizione di stilemi secondo canoni nuovi, seguendo le orme di gruppi storici inglesi come Van Der Graaf Generator e King Crimson. Il fine era quello di rivisitare l’aspetto più oscuro e doloroso del Progressive Anni ’70, dimenticando il lato fiabesco e romantico. All'epoca del loro esordio, insieme ai conterranei Anglagard e Anekdoten, vennero subito indicati come gli alfieri della new-wave of Progressive Rock. Mai nessuna definizione fu così corretta e, al contempo (con il senno di poi), rovinosamente errata. Il loro debutto discografico è segnato da Riktigt Akta del 1992, in cui viene fatta la scelta (saggia) di usare la madrelingua. Il disco però troverà una più ampia diffusione nella sua edizione con il cantato in inglese (con i titolo di Lonely Land).

Sono subito le vibranti corde vocali del singer Patric Helje ad accoglierci nel mondo caldo e brumoso dei Landberk. Subito un possente mellotron (a cura di Simon Nordberg) ci avvolge, sorretto dalle chitarre fortemente elettriche di Reine Fiske e dal pulsante basso di Stefan Dimle che fa da contraltare all'asciutto drumming di Jonas Lidholm. Ma tutta la struttura sonora poggia profondamente e pesantemente sul terreno stilistico dei Seventies. Alcuni brani (tra cui, senza ombra di dubbio, Waltz of the dark riddle e The tree) sono delle autentiche perle; ma, seppure (giustamente) apprezzato da tutti fan della vecchia scuola del Progressive, l'album non segna ancora il "trasbordo" di genere che il gruppo, magari inconsciamente, cova nel proprio DNA. Stilisticamente le cose cambiano già molto con il successivo One man tell’s another (1994), dove inizia a farsi spazio l’anima più autentica della band, non poco sensibile all’influenza degli U2 di dischi come The unforgettable fire (1984) ma nel quale pure comincia a confluire l'eredità sonora di David Sylvian (specialmente quello delle collaborazioni con Fripp) e dei Talk Talk postumi. Questa indole è particolarmente presente nel brano Time, che ha un potenziale radiofonico notevole. Ma è altrove che emerge tutta l’inquietudine emotiva e sonora degli svedesi (Kontiki). Senza dilungarci sui primi due passi della formazione, preferiamo calarci nel nostro cuore dove profonda è penetrata quella lama chiamata Indian Summer. Un coltello che si è piantato fisso nei nostri sentimenti da quando quel disco (era il 1996) si è affacciato, timido, sul mercato.  

Valichi e travalichi

Indian Summer (Record Haven, 1996), almeno nel mondo Progressive, ha segnato il punto di travalico verso un qualcosa di altro da sé. Ma come tutte le cose di confine, le sue sorti saranno infelici. Molto di più di altri gruppi i Landberk avrebbero meritato gli onori degli altari; il loro svanire nell’oblio è un segno evidente dei tempi insulsi che viviamo. Troppo “altro” per godere il pieno appoggio dei fan del Progressive, troppo “infangati” di Progressive per la stampa specializzata, che pure oggi pare rendersi conto (troppo tardi) di un disco di tal fattura. All Music Guide (www.allmusic.com), il sito enciclopedico di rock N°1 al mondo, riconosce a Indian Summer di aver preceduto di almeno un anno certe sonorità che verranno poi attribuite ai Radiohead di OK Computer (1997). Oggi persino i Sigur Rós, con dischi molto complessi, sono riusciti ad ottenere spazio nella stampa musicale mondiale, riuscendo addirittura ad avere un video in rotazione su MTV. Ma ascoltando ( )della band islandese, il mio cuore non può fare a meno di ricordare (almeno a sé stesso) da chi ha avuto origine una musica così elementale e così intensamente ispirata agli umori delle terre nordiche. Una musica che, per forza di cose, rimane in equilibrio tra una frugale enfasi e una evocativa sobrietà, pur senza mai essere austera e tronfia come lo è stata quella dei loro conterranei Anglagard. Riascolto Valentinsong da One man tell’s another e più passa il tempo, più passano i minuti, più Ágætis Byrjun mi pare già tutto qui. Tutto, qui.  

Persi nel limbo

Il disco inizia: apri gli occhi e non capisci neppure dove ti trovi. Humanize ti avviluppa in una nebbia di una mattina di autunno, quando ancora la terra è umida, ma non ancora conscia dei freddi invernali. E’ un battesimo emozionale che ti immette nel tessuto sonoro del disco, preparandoti nel modo migliore (con vaporose folate di mellotron e una chitarra ipnotica ma non invadente), ad affrontare la strada. Subito ti viene incontro la calda voce del cantante Patric Helje, che sarà un po’ quello che Virgilio è stato per Dante nella discesa agli inferi. Solo che qui di infernale non c’è davvero nulla: si tratta di un passaggio verso una qualche meta finale, ma la bruma è talmente spessa e bianca da impedire allo sguardo di carpire la direzione. L’abbandono alla foschia prosegue con All around me, dove le chitarre iniziano a scaldare l’aria e dove la batteria, secca e sobria, pare contrastare la circostante umidità, specialmente nella lunga coda strumentale. Un ulteriore passo avanti verso il nucleo vero di questo limbo apparente. L’andatura si fa più sostenuta con 1st of May, un brano rock molto tirato che ha il pregio di sorprenderti con delle improvvise ed emozionali scale chitarristiche, specialmente laddove il cantante sembra usare la sua voce in modo non dissimile da Bono degli U2. Un po’ di respiro arriva con I wish I had a boat, che ricordo inclusa in una compilation Ambient (???) del quotidiano La Repubblica.

Un ristoro per il cuore e per la mente, con un ritornello delicato come una pioggia d’Aprile e commovente come pochi. Pregevolissimo il fine lavorio della chitarra acustica nel centro della canzone, così come anche sensato e ispirato il procedere delle tastiere, mai pesanti o vogliose di un non necessario protagonismo. Neanche il tempo per una boccata d’ossigeno (fra l’altro mai carente in queste brulle lande nordiche), che DustGod ti piomba addosso costringendoti ad accelerare il passo, ma allo stesso tempo ti ammalia con un ritornello davvero riuscito, figlio di un canto dolente che sa però farsi liberatorio. Cinque minuti di sudore dell’anima, provocato da strappi di chitarra e da un basso carico di energia e, quindi, vivificante. Il cammino prosegue con Dreamdance (all’epoca uscita anche come EP): batteria afasica, mellotron di sottofondo, queste le sue caratteristiche. Un brano sghembo, quasi sfuggente pur nella sua concreta spigolosità. Il passo si fa dunque irregolare e l’affanno riprende. Tutto intorno la nebbia non accenna a diradarsi.

Un stato di veglia apparente, il fiato appanna le ormai inutili lenti da vista. Why do I still sleep, meravigliosamente ipnotica, sembra composta appositamente per descrivere questo stato di stanchezza catartica. Il canto è sorretto da tastiere dalle tinte Sylvianiche e da un basso che mima il pulsare di un cuore gonfio di vita e di sangue. La chitarra subentra inesorabile alla fine insieme all’invocazione di una qualche musa dalle femminee sembianze che declama, appunto, Perché continuo a dormire?”, rivelandovi la vera natura del luogo nel quale vi siete persi, in una caligine irreale: la terra di Morfeo, il sogno e il suo orizzonte. Ora siete coscienti e il risveglio è ormai vicino. E’ cosa rara essere lucidi durante un sogno. C’è appena il tempo di strappare via un pezzo di ricordo del vostro viaggio. La voce-guida (che arriva con la title track) si fa nenia, e sembra che abbia il compito contrario della mamma che culla il bambino per accompagnarlo nel sonno, preparandovi al risveglio mentre la chitarra vi cuce un invisibile ma prezioso ricamo sull’anima, quasi a suggellare il passaggio da persone consce nel mondo del sogno. Poi un’ultima carezza e l’oblio del vostro sentiero onirico giunge.   Chissà se per i Landberk è successo qualcosa di analogo?

Una carriera breve ma intensa e vissuta come un sogno. Ma noi ci siamo e per quel poco che saremo reali faremo sì che dischi come questo non vengano dimenticati, che QUESTO disco non venga dimenticato. Anzi cercheremo sempre di riportarlo alla luce, nella luce che merita. Come se la pancia della donna incinta in copertina di Indian summer, fosse lì a rammentare la fertilità eternamente ciclica della musica.  

[La versione orginale di questa recensione è apparsa sul magazine Wonderous Stories]

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luca.r 6/10

C Commenti

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luca.r (ha votato 6 questo disco) alle 14:38 del 8 marzo 2010 ha scritto:

pane & prog

interessante recensione stefano.. anekdoten ed anglagard (questi ultimi con colpevole ritardo) li ho scoperti solo negli ultimi 4-5 anni, ma con grandissima soddisfazione. In particolar modo reputo - forse - Hybris il più bel disco progressive (nel senso autentico ed originale del termine) post-età dell'oro.

Questi Landberk invece non ho ancora trovato il modo di ascoltarli, ma la rece mi invoglia a farlo... cercherò di rimediare (pur sempre in doveroso ritardo, ma forse non ancora fuori tempo massimo)

swansong (ha votato 8 questo disco) alle 18:09 del 11 marzo 2010 ha scritto:

Eccellenti!

e complimenti per aver riscoperto - con così tanta passione e coinvolgimento - uno dei gruppi più esaltanti e rappresentativi del prog rock scandinavo. Ha ragione anche Luca a citare gli altri due mostri sacri della triade: Anglagard e Anekdoten. Concordo su "Hybris" che reputo un ottimo lavoro anche se troppo ancorato ad uno stile barocco e "classico" di suonare prog. Meglio, a mio parere, gli stratosferici Anekdoten di "From Within", opera che rimane, ad oggi, la vetta assoluta del progressive scandinavo (e non solo) degli ultimi anni..

Utente non più registrato alle 14:33 del 29 febbraio 2012 ha scritto:

All'epoca in cui uscivano i dischi di prog provenienti dalla Scandinavia, me ne appropriai avidamente; oltre a quelli citati non dimentico i Morte Macabre (con i componenti di Landberk e Anekdoten), i Ritual, i Sinkadus, i White Willow.