No Age
Nouns
Il “caso” musicale del 2008, osannati da riviste, fanzine, circoli ricreativi, amici, gozzovigliatori incalliti e persino ubriaconi pederasti. E per una volta, verrebbe da dire, sembrerebbe che il mondo (alternative) non si sia perso in un bicchier d’acqua come negli ultimi anni gli era capitato di fare con Libertines e Arctic Monkeys. Il fenomeno in questione prende il nome No Age, gruppo californiano garantito dalla storica etichetta Sub Pop, quella che ha fatto emergere gente come Nirvana, Mudhoney, Shins, tanto per intenderci.
La prima cosa che salta all’attenzione è il fatto che nonostante il gran macello e la sensazione di avere una band molto numerosa con svariate chitarre la band in realtà non è altro che un duo, formato da Randy Randall alla chitarra e da Dean Spunk alla batteria (più voce). La seconda è la quantità di carne che viene messa al fuoco dalla coppia americana: diverse anime convivono infatti nella band e talvolta la divisione appare quantomeno netta: da un lato i brani quasi unicamente strumentali (Things I Did When I Was Dead, Keechie, Errand Boy, Impossible Bouquet) in cui emerge nettamente la vena psycho-space-shoegaze erede di mostri sacri come My Bloody Valentine e Spacemen 3; dall’altro una veemenza sonora tipicamente punk (e per certi versi anche post-punk); in mezzo il fondamentale amore per l’indie, quello di fine ‘80s-primi ‘90s che “riscopriva” un certo tipo di rock ed era in grado di adattare le classiche melodie pop ‘60-70s con uno stile personale più disimpegnato (per non dire apertamente scazzato) di musicisti reduci nel bene e nel male dagli anni ’80s (e pienamente consci quindi di quel che sono stati new wave, punk e post-punk) .
Il risultato è che brani come Eraser e Here Should Be My Home suonano irresistibilmente indie pur mantenendo una freschezza tipica del punk-pop più giovanile, e questo nonostante il consistente noise perennemente in sottofondo e una certa tendenza sperimentale ben evidente nel primo brano, che esplode relativamente tardi nel ritornello micidiale e non osa portare avanti le premesse mollando subito la presa.
Consistenza indie ‘90s che si ritrova pure in Cappo, da cui scaturisce l’impressione di sentire il noise dei Jesus and Mary Chain (specie per il cantato alquanto distaccato, per non dire assente) dopati di punk-pop. Neanche così distanti dai Sonic Youth in fondo, gruppo la cui influenza si risente un po’ dappertutto per il risalto dato alle rumorosità chitarristiche onnipresenti e molto più che ruvide. Anzi quasi di weirdo garage e shitgaze verrebbe voglia di parlare ascoltando la devastante partenza di Miner, eppure rimane una netta differenziazione: Spunk non urla mai, non strepita, non alza mai il tono.
Il suo è un modo di cantare che ricorda molto quello di Doug Martsch (Built to Spill) e le melodie vocali escono raramente da stilemi indie-pop. Magari fusi con gli Husker Du arcadiani, come in Brain Burner, oppure più vicini al formato Ramones, come in Ripped Knees, ma di fatto sempre presenti, e alla base di brani irresistibili (per non dire capolavoro) quali Sleeper Hold e Teen Creeps, singoloni per masse che di fatto non fanno altro che unire l’estetica noise-punk dei Sonic Youth alla frenesia eccitante dei Built to Spill.
Con risultati superbi non c’è che dire. E allora dov’è il problema? Forse proprio in quelle fughe in avanti space-gaze, che pur aprendo ad ampi margini di manovra al duo sembrano qui limitarne l’opera spezzettando troppo un ritmo a dir poco devastante. Ma d’altronde si parla di quisquilie, e non pare sia il caso di lamentarsi eccessivamente. E allora ben venga la nuova next big thing ammerigana!
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