Avi Buffalo
Avi Buffalo
Eccolo. Lo si aspettava al varco. L’esordio fresco da gustare en plein air con l’arrivo della stagione estiva. La band giovanissima e un poco provinciale che si affaccia con l'entusiasmo dei post-adolescenti in un mondo nuovo (il successo! pitchfork! la notorietà via web!) da prendere di pancia, con una naïveté contagiosa. Ed è arrivato, puntuale, dalla California, via Sub Pop. Loro si chiamano Avi Buffalo, dal nomignolo del loro leader, Avigdor Zahner-Isenberg, 21 anni e tanto amore per gli anni sessanta. Sono in quattro, e questo è il loro momento ok.
Il disco, bando all’hype, è in effetti una prelibatezza. I dieci pezzi si muovono all’interno di un indie-pop folkeggiante molto sixties e dalle venature psych, come gli Shins e i Fleet Foxes fotografati mentre sorridono ai Beatles. L’impianto e i riferimenti sono iper-classici, ma vengono rivitalizzati da un gusto per gli arpeggi labirintici e le trame chitarristiche sinuose e puntinate tutto ’00. L'esito finale è una colorata miniatura guitar-pop che riprende motivi antichi ricamandoli con un tocco di vivace sfrontatezza: su prati color pastello, allora, si distendono cascatelle e rivoli armonici lussureggianti, coretti freak e birichinate da folletti, mentre le tastiere di Rebecca Coleman, i cori e gli overdubbing vocali creano echi leggermente drogati. Da trip in giardino.
A orchestrare il tutto ci pensa la voce di Zahner-Isenberg, stridula e impertinente, un po’ MGMT (moltissimo, ad esempio, nella tossicomane “What’s In It For”), un po’ Band Of Horses, a orientare le atmosfere verso lidi giocosi, anche nelle torch-songs più sentimentali (“Jessica”, che è anche auto-caricatura). Così, ancora, nella balzellante “Summer Cum”, dove la batteria sottopelle e gli incroci di chitarra e tastiera tessono una tovaglia da pic-nic dalle fantasie sgangherate (Chad VanGaalen!).
Ed è consolante sentire come gli Avi Buffalo non si prendano sul serio, ma amino anzi viaggiare su frequenze deliziosamente inconsistenti (“Truth Sets In”, ossia gli xx stornati al folk) o talmente primaverili da ricreare un parco-giochi via musica: splendida “Coaxed”, in cui le note di piano e chitarra disseminate a pioggia sono puro fonosimbolismo, soprattutto nel finale, dove sembrano ricreare (con l’aiuto dei fiati) versi di uccelli. Presenti i Clientele? Bene, togliete il loro sfondo autunnale e piazzateci un maggio trionfante. Addirittura caraibico (la coda di “Five Little Sluts”), per quanto sempre americanissimo: “One Last”, duetto retrò di folk pop in odore di americana, è un piccolo cammeo rootsy fuori dal tempo, ma geograficamente tutto yankee. E alla fine ci si può unire al sing-along della ballata vintage “Where’s Your Dirty Mind”, all’urlo di «too much time to die, and I don’t wanna die».
Se la vostra sensibilità musicale non è già stata anestetizzata e resa cinica dagli impicci quotidiani, qui troverete un piccolo giardino chiuso in cui godere a piene orecchie. Aspettare al varco valeva la pena.
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