A Dr. Dog - Live a La Casa 139 (Milano)

Dr. Dog - Live a La Casa 139 (Milano)

L’ultima volta che ho assistito a un concerto così spudoratamente revival è stato quando a passare dalle parti di Milano ci fu quel gruppo di culto che sono i Black Lips. E in effetti si può dire che i Black Lips stiano al garage come i Dr.Dog stiano al classic-rock. Entrambi sarebbero potuti esistere senza problemi negli anni ’60 (anzi è probabile che rimpiangano di non aver vissuto quell’epoca musicale d’oro). Entrambi non hanno pudore a far rivivere uno stile musicale smaccatamente citazionista e poco originale, eppur fatto così bene da far venire le lacrime agli occhi. La differenza però è data tutta dalle due esibizioni dal vivo. Laddove dai Black Lips ci si aspettava sfracelli si finì per avere un concerto carino e poco più. Mentre invece per i Dr.Dog si aveva il timore di incorrere in qualche sbadiglio di troppo, e ci si è ritrovati a muovere il culo e scuotere la testa come dei pazzi invasati dall’alcool di un qualsiasi sabato sera.

Ma andiamo con ordine. E cominciamo dai Wye Oak, gruppo d’apertura a me sconosciuto che a quanto pare ha esordito quest’anno con l’album If children. Perché perdere prezioso tempo con il gruppo d’apertura direte voi? Perché i Wye Oak hanno spaccato di brutto, pur nel breve tempo loro concesso (una mezzoretta scarsa). Hanno infiammato a tal punto gli animi che diventa obbligatorio dagli lo spazio che si meritano: la band è in realtà un duo proveniente da Baltimora.

Lui, Andy Stack, riesce nell’impresa di suonare la batteria con una mano mentre con l’altra distilla note di tastiera. Lei, Jenn Wasner, si limita a cantare e suonare la chitarra. Detto così sembra una cosa banale, una delle tante. Eppure il duo riesce a unire folk elettrico, scorze di noise e desolazione grunge con uno stile invidiabile. Accelerazioni lancinanti e pochi scarni accordi accompagnano la commovente voce della Wasner, in grado di far rivivere la PJ Harvey di Rid of me. Potente songwriting femminile che lambisce prepotenti ricordi di Sonic Youth e acidità desertiche alla Neil Young. Il risultato è un low-fi profondamente americano che colpisce dritto al cuore.

L’unica pecca che rovina il momento viene dal pubblico, e precisamente da un energumeno impiegatizio che messosi in prima fila ostruisce buona parte della visuale con le grasse chiappone che scuote senza ritegno, con effetto alquanto comico e grottesco.

Alla fine però la cinquantina e passa di spettatori applaude convinta e qualcuno corre ad accalappiarsi pure il disco al banchetto.

Passa poco tempo e salgono sul palco i Dr.Dog. E a guardarli non si può non trovarli assolutamente meravigliosi: Scott McMicken e Frank McElroy, i due chitarristi, si presentano con dei bellissimi occhiali da sole arancione-fosforescente, barboni incolti, camicie di flanella e cappellini vari. Toby Leaman, bassista, li accompagna con uno splendido panama in stile latifondista del profondo sud americano. Juston Stens (batterista) e Zach Miller (tastiera) sono più sobri e nonostante l’evidente protagonismo scenico dei primi tre riescono a farsi notare concretamente con i loro strumenti (più il batterista per la verità, con sfuriate davvero eccellenti). Si parte con The old days e l’aria del locale si spruzza di cori 60s raffinati e incantevoli.

Chitarristi e bassista cantano all’unisono sporgendosi quasi fuori dal palco e l’effetto è coinvolgente quasi come se ci trovassimo di fronte a una succursale dei Blues Brothers. Carisma da vendere e molta più energia di quanto trasparisse dal pur ottimo disco Fate. Assoli e riff che dallo stereo uscivano puliti e raffinati diventano qui benedetti dal diavolo del rock’n’roll, infatuati di un’energia vitale davvero notevole. Sono dei veri show-men i Dr.Dog e suonano da Dio. Saltano, si scuotono, si fiondano sui microfono con foga, sudano, sputano e gracchiano soul, blues e country con una semplicità pazzesca. Mentre rimango ammaliato dai cori intriganti e da un’acustica vibrante noto che il pavimento mostra segni di cedimento e che mi impaurisco all’idea che il concerto possa finire in anticipo causa demolizione involontaria del palco. La prima volta che guardo l’orologio mi accorgo che è passata quasi un’ora e mi rendo conto che è uno dei concerti più eccitanti a cui sia mai andato.

È importante però capire che lo dico da amante del rock. Perché di questo si tratta alla fine: di squisito e rabbioso classic rock eseguito con una potenza, precisione tecnica e foga davvero perfetti. Mentre sei lì pensi che stai ascoltando quanto di meglio possa riassumere gli anni ’60-70. Chi non ama anacronismi se ne stia a casa e non venga a far notare i coretti alla Beach Boys, le melodie beatlesiane, gli spunti dei Byrds, le chitarre di Neil Young e Lynyrd Skynyrd, l’arte della Band, le partenze alla Bob Dylan, i riff alla Rolling Stones, le sfuriate dei Blue Cheer e via dicendo. Se a uno non sta bene amen, ma come si fa a non entusiasmarsi con una simile enciclopedia del rock? Eccezionali soprattutto il piccoletto Scott McMicken con i suoi assoli e il rude Toby Leaman che fa pulsare il suo basso dal profondo dell’anima e sfodera delle basi sataniche e davvero primordiali, specie quando gioca col blues.

L’esibizione dura più di un’ora concedendo ben due bis a una folla entusiasta che ulula e strepita fino al grande rientro. Che dire più… se potete andate a vederli i Dr.Dog perché su disco sono carini sì, ma dal vivo si trasformano e diventano delle macchine da palco. Garantito!

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fabfabfab alle 12:51 del 13 novembre 2008 ha scritto:

Una conferma

rubens alle 0:43 del 21 novembre 2008 ha scritto:

Confermo la conferma

Sentiti dal vivo stasera: incredibili. Sono riusciti miracolosamente a fare ancora meglio che su disco. Uno dei migliori concerti visti negli ultimi anni.