The Afghan Whigs
Do The Beast
When youre high and lost in the clouds, then you know its time to get down again
Così cantava Greg Dulli in Omerta/Vampire Lanois, baraonda sonora ed epitaffio degli Afghan Whigs in 1965, album conclusivo della loro splendida carriera, risalente ormai a sedici primavere fa. Una delle band più significative degli anni 90, partiti dal grunge della Sub Pop e approdati a una forma peculiarissima di rock sanguigno e articolato, impreziosito da rimandi black music via via sempre più massicci, segnatamente nella triade Congregation, il capolavoro Gentlemen e Black Love. Album mai baciati dallo stesso successo di massa toccato ad altri cavalli lanciati dalla scuderia Sub Pop: troppo adulto e sofisticato lapproccio di Dulli, che poi coi Twilight Singers negli anni successivi avrebbe accentuato ulteriormente la sua vocazione da soulman bianco e predicatore in cerca di redenzione dopo una vita di eccessi tra sesso, droga e rock and roll.
Arriva così anche per gli afgani di Cincinnati il momento dellinevitabile reunion, con un nuovo album pubblicato proprio per la storica etichetta di Seattle, Do The Beast. Solo il bassista John Curley tra i membri originali siede accanto al leader: si nota in particolare lassenza di Rick McCollum, il Joey Santiago degli Afghan Whigs, silenzioso perno del granitico muro sonoro della band e qui sostituito da svariati collaboratori. Il risultato è una piacevole raccolta di canzoni e un viaggio nel cuore degli anni novanta, senza altre pretese e che mantiene inattaccabile lopera omnia della band.
Nei primi due brani in scaletta, Parked Outside e Matamoros si registra tutto ciò che rese grandi i nostri eroi 20 anni fa: i riff dal sapore funky, trame chitarristiche taglienti, il cantato di Dulli che oscilla tra impeto luciferino e improvvise carezze, aprendo un nuovo capitolo delle sue confessioni di una mente pericolosa. Su un canovaccio simile si dipana The Lottery, il brano che più ricorda le atmosfere torbide e magnetiche di Black Love. Un languido pianoforte introduce e puntella It Kills: una delle escursioni più spiccatamente soulful, ne fa fede la calda ugola di Van Hunt, fra le ospitate più prestigiose di un disco il cui titolo pare sia stato suggerito a Dulli dall'amico Manuel Agnelli. Identico scenario si delinea per lalgida Lost in the Woods, con la sua ricchezza strumentale affine a certe magie di band coeve come i sottostimati Satchel di Shawn Smith.
Cè qualche brano un po anonimo, tipo il singolo Algiers, che si avvita su se stesso prima di entrare nel climax, ma ciò non inficia la riuscita complessiva dellopera, deo gratias. La conclusione è affidata a These Sticks, ballata epica in cui Greg Dulli omaggia sue perle del passato come Faded e My Curse, nel consueto intreccio di perversione, sarcasmo e desolazione: sarà anche imbolsito e appesantito, ma i suoi demoni sembrano ancora lungi dallessere sedati.
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