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R Recensione

7/10

The Afghan Whigs

Do The Beast

“When you’re high and lost in the clouds, then you know it’s time to get down again”

Così cantava Greg Dulli in “Omerta/Vampire Lanois”,  baraonda sonora ed epitaffio degli Afghan Whigs in “1965”, album conclusivo della loro splendida carriera, risalente ormai a sedici primavere fa. Una delle band più significative degli anni 90, partiti dal grunge della Sub Pop e approdati a una forma peculiarissima di rock sanguigno e articolato, impreziosito da rimandi black music via via sempre più massicci,  segnatamente nella  triade “Congregation”, il capolavoro “Gentlemen” e “Black Love”. Album mai baciati dallo stesso successo di massa toccato ad altri cavalli lanciati dalla scuderia Sub Pop: troppo adulto e sofisticato l’approccio di Dulli, che poi coi Twilight Singers negli anni successivi avrebbe accentuato ulteriormente la sua vocazione da soulman bianco e predicatore in cerca di redenzione dopo una vita di eccessi tra sesso, droga e rock and roll.

Arriva così anche per gli afgani di Cincinnati il momento dell’inevitabile reunion,  con un nuovo album pubblicato proprio per la storica etichetta di Seattle, “Do The Beast”. Solo il bassista John Curley tra i membri originali siede accanto al leader: si nota in particolare l’assenza di Rick McCollum, il Joey Santiago degli Afghan Whigs, silenzioso perno del granitico muro sonoro della band e qui sostituito da svariati collaboratori.  Il risultato è una piacevole raccolta di canzoni e un viaggio nel cuore degli anni novanta, senza altre pretese e che mantiene inattaccabile l’opera omnia della band.

Nei primi due brani in scaletta, “Parked Outside” e “Matamoros” si registra tutto ciò che rese grandi i nostri eroi 20 anni fa: i riff dal sapore funky, trame chitarristiche taglienti, il cantato di Dulli che oscilla tra impeto luciferino e improvvise carezze, aprendo un nuovo capitolo delle sue “confessioni di una mente pericolosa”. Su un canovaccio simile si dipana “The Lottery”, il brano che più ricorda le atmosfere torbide e magnetiche di “Black Love”. Un languido pianoforte introduce e puntella “It Kills”: una delle escursioni più spiccatamente soulful, ne fa fede la calda ugola di Van Hunt, fra le ospitate più prestigiose di un disco il cui titolo pare sia stato suggerito a Dulli dall'amico Manuel Agnelli. Identico scenario si delinea per l’algida  “Lost in the Woods”, con la sua ricchezza strumentale affine a certe magie di band coeve come i sottostimati Satchel di Shawn Smith. 

C’è qualche brano un po’ anonimo, tipo il singolo “Algiers”,  che si avvita su se stesso prima di entrare nel climax, ma ciò non inficia la riuscita complessiva dell’opera, deo gratias. La conclusione è affidata a “These Sticks”, ballata epica in cui Greg Dulli omaggia sue perle del passato come “Faded” e “My Curse”, nel consueto intreccio di perversione, sarcasmo e desolazione: sarà anche imbolsito e appesantito, ma i suoi demoni sembrano ancora lungi dall’essere sedati.

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Voto degli utenti: 7,4/10 in media su 5 voti.
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REBBY 7/10
inter1964 7,5/10

C Commenti

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ThirdEye alle 18:17 del 30 aprile 2014 ha scritto:

Diffido dalle reunion. E la mia diffidenza è ulteriormente aumentata in questi anni in cui pare vada addirittura di moda, e soprattutto dopo essermi sottoposto a cocenti delusioni ("King Animal" degli un tempo grandissimi Soundgarden, gli ultimi, osceni aborti dei Pixies...), però di questo ne sto sentendo parlare bene, e quasi quasi la curiosità mi assale. Spero solo di che non mi sanguinino le orecchie anche in questo caso, altrimenti preferisco rimanere col riciordo dei vecchi dischi, e che dischi ("Congregation" e "Gentlemen" su tutti)....

ulanbator86 alle 12:49 del 30 dicembre 2014 ha scritto:

Han sanguinato?....secondo me è un ottimo album nonostante anche io avessi mille dubbi... pezzi come "It Kills" valgono un album intero di qualsiasi altra band riunita....

Franz Bungaro (ha votato 8 questo disco) alle 16:42 del 22 maggio 2014 ha scritto:

E' uno degli album che ascolto con più piacere negli ultimi tempi. E lo faccio quotidianamente. Credo che, molto banalmente, sia pieno di belle canzoni. Siano questi gli Afghan Whigs, siano altri, siano un nuovo gruppo, siano vecchi rigenerati, m'importa poco. Uno degli album più belli finora. No dico, ma Matamoros è o non è una bomba? E Parked Outside? E Lost in the Woods? MITICI

zagor alle 18:13 del 25 maggio 2014 ha scritto:

sì, un buon disco, "matamoros" in particolare gran pezzo...il problema coi dischi delle reunion è che anche se ben fatti poi un po' scivolano via, e diversi mesi dopo se riascolti il gruppo ti butti di nuovo sui loro classici. questo comunque è al di sopra dei tipici, melensi dischi da reunion.

NathanAdler77 (ha votato 7,5 questo disco) alle 2:11 del 10 giugno 2014 ha scritto:

Se il mondo fosse popolato da dischi-reunion del livello di "Do To The Beast" sarebbe un luogo migliore, più umano e più vero...Purtroppo la realtà è cinica e bara ed esistono anche nuovi, muffosi album a nome Bauhaus o Pixies. Ma gli Afghan Whigs non erano (e non sono) una band qualsiasi: qui il buon Dulli riesce a tenere ancora alta la sacra, spesso profana, fiammella del suo trademark soul-grunge in brani killer come "Parked Outside" e nelle memorabili ballad "It Kills" e "These Sticks". Tralasciando l'età aurea del periodo 1992-'93 questo ritorno è il miglior esempio di poetica rock dulliana dai tempi di "Black Love".

REBBY (ha votato 7 questo disco) alle 12:00 del 13 gennaio 2015 ha scritto:

Rispetto ad altre reunion, qui il vantaggio in partenza sta nel fatto che Dulli non ha in realtà mai smesso e che oltretutto ha fatto cose interessanti anche al di fuori dell'ambito Afghan whigs. Alla fine si potrebbe anche dire che è l'album in cui ritorna sodale Curley, ma quel che conta è che sia un buon album (quasi antologico, ma ancora ispirato) pure valutato all'interno del percorso dulliano. Mi allineo al voto di Junio, ma dissento da lui su Algiers, che è tra le mie preferite.