R Recensione

8/10

Feist

The Reminder

L’uscita del nuovo disco dalla chanteuse, nelle release dates si staglia già come una presenza straordinaria, a tratti rassicurante, tra le insignificanti escursioni sonore da cantautorato da coffee house stile Norah Jones o girl-disses-girl-pop da sobborgo à la Lilly Allen.

Forse un piccolo tuffo nel passato può portare un po’ di luce sulla formazione e l’ambizione musicale di Leslie Feist.

Nata a metà anni settanta a Calgary, in Canada, il coro della scuola vede i primi scintillii della sua voce graziosa durante le performance di canzoncine vaporose come “Lollipop”: un posto poco luminoso per talento ancora grezzo. E infatti, a quindici anni, la giovane Feist abbandona il suo primo nido musicale e si lancia a fare i primi passi musicali in una high-school punk rock band.

Dopo le prime esibizioni davanti al pubblico, al termine di una competizione, si ritrova, diciottenne, ad aprire i live per i Ramones:da lì al primo tour in patria il passo è breve. Cinque anni in tour come supporter di un band metal ne affinano le doti rock, ma ne stremano le corde vocali, costrette ad imporsi contro chitarre ad altissimo volume, e rischiando, stremate, di chiuderne prematuramente la carriera.

Trasferitasi per questo a Toronto, nel 1998, per curare la sua voce e a dedicarsi alla musica più conforma, inizia a suonare la chitarra con i By Divine Right un anno più tardi. Nel 1999 pubblica l’esordio Monarch e diventa parte dalla scena avanguardistica musicale nata attorno a Peaches (uno dei personaggi femminili-simbolo del movimento electropunk, ma anche la sua coinquilina all’epoca, che la ribattezza con lo pseudonimo trash Bitch Lap Lap), Mocky e Gonzales. In più, entra a far parte delle stelline dell’indie canadese Broken Social Scene.

Nel 2004 il pubblico ha finalmente modo di accorgersi del talento maturo del Schöngeist Leslie Feist, quando esce il grandioso Let it die, co-prodotto con Gonzales, grande successo di critica e pubblico, a marcare il felico incontro tra un pop allegro, innocente e raffinatissimo (a volte ballabile, a volte introverso) tra influenze folk , bossa nova, chanson , jazz-pop e indie rock .

È l’anno delle collaborazioni: Kings of Convenience, Apostle of Hustle e Jane Birkin, i già nominati Peaches e Mocky (a far risaltare Navy Brown Blues), e infine, nel 2006, Open Season, raccolta di remixes di Let it die e collaborazioni, ennesima, seppur in minore, riprova di un talento eclettico e straordinariamente sfaccettato.

Ed è proprio la mancanza d’eclettismo, ciò che più si potrebbe criticare nel nuovo album The Reminder. A scanso di equivoci: il perfetto oggetto primaverile. La voce di Feist brilla cristallina e gli amici di lusso come Jamie Lidell , Gonzales, Mocky, non mancano di far sentire la zampata di classe, riuniti tutti assieme nello studio di La Frette, per suonare insieme in una sorte di camp musicale .

E in effetti, questo scenario viene “comunicato” con forza: The Reminder diviene uno di quegli album in cui si possono percepire i cinguettii degli uccelli, i suoni degli aerei che volano in un cielo blu e puro, rumore di passi in punta di piedi, persino il pubblico che, scolasticamente, intona il refrain di una sua canzone.

La ricchezza dell’arrangiamento non si fa mai ingombrante, la voce di Feist rimane sempre in primo piano, ma il risultato nondimeno lascia a tratti una traccia un pò troppo zuccherina. La cantante canadese purtroppo troppo spesso dilapida il proprio, eccezionale, talento indugiando eccessivamente nel clichè amoroso.

The Reminder perde qualche colpo rispetto alla raffinatezza e all’eclettismo di Let it die, con il suo colorato miscuglio di riferimenti stilistici. Il pop feistiano a volte scivola non troppo lontano dalla banalità, come in “One two, three, four”, che vuole essere un secondo “Mushaboom”, e risulta invece un irritante filastrocca nonsense (One, two, three, four, money can’t buy you back the love you had then) o come nella tediosa “Brandy Alexander” ( You're my Brandy Alexander, always bring me into trouble [...] but you go down easy ), mentre “ The Limit to your Love” risulta troppo poco creativo nella sua inclusione di elementi R&B: pezzi in cui sembra mancare il coraggio di andare oltre un’ amabile piacevolezza estetica.

Fortunatamente, prevalgono i momenti in cui l’ascoltatore può respirare appieno le melodie uniche intessute da Feist: l’opener “So sorry” è una splendida dimostrazione dell’eleganza musicale della cantante canadese, “I feel it all” tergiversa e spiazza con un incedere sincopato quasi outkastiano.

Sea lion woman”, cover/variazione spettacolare della “See Line Woman” già resa celebre da Nina Simone, attraversa come uno scossone l’album, baciata dalla classe innata di Lidell.

Con la morbida e dolce “How my heart behaves”, collaborazione con Eirik Glambek dei Kings of Convenience, e la fragile “IntuitionFeist ci regala due dei pezzi introspettivi più belli mai vergati dalla mano della musicista. “Past in present” e “My moon my man” respirano la leggerezza e coolness di una volta. “ Honey Honey” , pezzo bello e atmosferico, è probabilmente con “Sea lion Woman uno dei picchi dell’album, la voce che avanza per inerzia come un’antica locomotiva nel suo melanconico percorso.

Sono questi lampi speciali, reminiscenza della leggerezza, della varietà e della gioia della musica di Feist , che ci fanno dimenticare gli scivoloni di prima. E così, anche se l’album in generale marcia con un passo un pò meno sperimentale, più prevedibile, non ci lascia insoddisfatti, ma ancora con l’acquolina in bocca per il prossimo.

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Voto degli utenti: 6,9/10 in media su 13 voti.

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Cas (ha votato 6 questo disco) alle 12:22 del primo maggio 2008 ha scritto:

mmm, non so, a parte poche eccezioni (I Feel It All è splendida) l'ho trovato un disco un pò piatto...