R Recensione

6/10

Pharaohs

We've Tried Nothing And We're All Out Of Ideas

We’ve Tried Nothing And We’re All Out Of Ideas è l’EP di debutto dei Pharaohs, giovane quartetto del Kent dedito ad un indie-pop che, in egual misura, guarda da un lato alla fruibilità commerciale e dall’altro all’intreccio complesso delle architetture sonore.

I musicisti, Jonny Lewis e Joe Steven (voci e chitarre), Josh Marsh (basso) e Rob Leary (batteria), provengono dalla precedente esperienza con gli HPR, ignota band prematuramente scomparsa a seguito dell’abbandono di uno dei componenti. Risorti come Pharaohs alla fine del 2008, i quattro riescono in un anno a farsi tre tour in giro per l’Inghilterra e a produrre questo lungo EP, facendosi apprezzare attraverso una discretamente ampia diffusione radio sostenuta da luminari del campo quali Steve Lamacq e Huw Sthephens. Ottime recensioni un po’ da ogni dove completano il quadretto, non facendo altro che ribadire, sotto le più disparate forme letterarie, che il successo è garantito e che questa è una band su cui scommettere per il futuro.

Ora, salvo eclatanti ed insospettabili metamorfosi, io personalmente non ci scommetterei un euro. O meglio, non scommetterei un euro sul fatto di poter contribuire anche in minima misura a tale ipotetico successo. E non perché il lavoro in questione sia brutto, anzi, vi si trovano ottime partiture e melodie gustosamente rotonde. Il fatto è che non riesco a concepire un ruolo attuale per un disco del genere.

La recensione potrebbe essere: vi piacciono i Bloc Party (leggi anche Foals o Wintermute o Minus The Bear)? Compratevi questo disco. Fine. Senza far troppo torto a nessuno. Magari si potrebbe aggiungere, fortunatamente e per giustizia verso i Pharaohs, i Bloc Party di Silent Alarm e non quelli degli informi lavori successivi. Ma tant’è: questo è un disco che vive di rapine e saccheggi, di refurtiva più o meno sopraffina passata per le mani di un onesto e raffinato ricettatore. Si aggiunga a questo carattere fortemente derivativo un grosso limite nella declinazione dell’ormai arcinoto linguaggio specifico e si avrà una semplice quanto efficace rappresentazione del lavoro: un EP di ventisei minuti, che sembra lungo il doppio; un EP di sette brani, che sono sette prospettive di un unico oggetto.

La formula è tanto semplice quanto ripetitiva: tempo medio-veloce, batteria ricca e spigolosa, basso semplice cha va e viene, chitarrine indie strapazzate su accordi dissonanti e scalette pentatoniche e/o cromatiche (sottratte di peso, insieme ai suoni di chitarra, al repertorio degli americani Faraquet), linee vocali ultra-melodiche, dignitosamente appiccicose, a metà fra schiamazzo punk adolescenziale e compostezza brit-pop. Un breve strumentale nel mezzo di ogni brano permette ai quattro di esprimere tutto il loro amore per la matematica attraverso tempi sghembi, cambi poco ortodossi e terzine che si affacciano fugaci dietro ogni angolo. Va precisato che la componente math è edulcorata il più possibile, tanto da risultare assolutamente accessibile anche per l’ascoltatore più pigro.

Sfilano così, in una sequenza in cui è difficile trovare fratture,  l’opener TV (fanciullesca nella sua invettiva contro la pubblicità), l’ottima Squashed Against My Wall, singolo dal ritornello trascinante (anche se, in fin dei conti, si parla delle tarme nell’armadio) e l’indeterminata Space Is A Waste Of Space, dove ad una melodia non indimenticabile sopperisce l’eclettismo degli strumenti, spinto qui alle sue forme più estreme.

L’attacco dell’ancora indovinata Decorex illude, relegando in sottofondo (per quasi un minuto) il protagonismo delle chitarre. La stessa cosa avviene, ancora più marcatamente, nell’inizio di If Columbus Had A Nav Sat: pare davvero che il gruppo valuti l’idea di esplorare un territorio finalmente differente, salvo poi frustrare le nostre belle speranze con l’invadente, stavolta davvero irritante, reiterazione di tutti i soliti elementi. E non ci si schioda più. Mosquito In a Bottle si salva per il buon ritornello e per il finale, Traffic per il finale solamente.

Ecco dunque, ancora una volta, degli ottimi musicisti che si auto-castrano curiosità e funzioni creative in prospettiva, presumo, di un risultato dalla spiccata (e verificata) appetibilità commerciale. Il fatto che le capacità tecniche palesi permetterebbero ai quattro giovani di suonare qualunque (altra) cosa non fa che alimentare la mia indisposizione verso la loro proposta. Così come, certamente, ci saranno altri predisposti invece ad apprezzarla e, perché no, esaltarla per tecnica, leggerezza, equilibrio e gusto melodico.

Web Utilities:

http://www.myspace.com/pharaohstheband

http://www.musicglue.com/pharaohs

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