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R Recensione

6,5/10

Dale Crover

The Fickle Finger Of Fate

Nel mondo impossibile che vorrei, il disco pop perfetto dovrebbe materializzarsi ex nihilo all’intersezione tra progressioni emo old style, geometrie frippiane e armonizzazioni à la Beach Boys (o, meglio ancora, à la Joe Meek). Un’autentica utopia, me ne rendo conto. Meglio accontentarsi, nel mentre, del disco pop sbagliato: sbagliato perché uscito nella settimana più morta dell’anno per un’etichetta di nicchia, sbagliato perché si chiama il dito volubile del destino (e a vedere l’horribly slow murderer in copertina non abbiamo dubbi sul dito a cui si fa riferimento…), sbagliato perché formato da quattro brani messi in croce, sbagliato perché annacquato da una quantità sbalorditiva di intermezzi (un disco fatto di intermezzi? Possibile?). Sbagliato, infine, perché progettato e suonato interamente da Dale Crover. Proprio lui: il batterista di Melvins, Porn, Altamont, Shrinebuilder, Crystal Fairy… Lui. E perché mai stupirsene? Al novero degli schizzati che hanno deciso di misurarsi col pop manca solo, forse, Merzbow (e non diciamolo troppo forte…).

A memoria, l’unica uscita di rilievo riconducibile al nome di Crover è uno dei famosi tre EP kissiani rilasciati venticinque anni fa e, per l’occasione, ristampato lo scorso febbraio (in edizione limitata e con aggiornata grafica cyberpunk, da Amphetamine Reptile e Boner Records): motivo per cui, ad essere completamente sinceri, “The Fickle Finger Of Fate” qualche motivo di interesse lo suscita, se non altro per l’annata del tutto incolore che – tra l’omonimo esordio dei Crystal Fairy e il pedante “A Walk With Love And Death” – ha caratterizzato la produzione di Buzzo & co. Sono proprio due dei nomi che avevamo visto dare man forte all’ultima doppia fatica studio dei Melvins a ritornare fattivamente nella formazione a supporto di Crover, inclusiva anche della figlia Scarlett a violino e percussioni (forse che i dischi sono stati concepiti e registrati in contemporanea?): Steven McDonald si alterna al basso con Dan Southwick, mentre Toshi Kasai viene impiegato a tastiere, chitarre, banjo e scacciapensieri (!). Se la faccenda comincia a suonarvi grottesca, mettetevi il cuore in pace: è esattamente così.

Disco pop, dunque. Ma di che pop si tratta? Più facile ad ascoltarsi che a dirsi. Funk slabbrati e scazzatissimi ricoperti di fuzz (“Bad Move”), sudici r’n’r senza un solo fronzolo (“Hillbilly Math”), rustiche stille di americana che si divaricano in ritornelli quasi garage (“Little Brother”), derive psicogene con bassi imponenti (“Big Uns”), folk pastorali dagli stacchi dissonanti (la title track, distorsioni a parte, sarebbe stata bene in “This Machine Kills Artists”), improvvisi sbalzi hard rock stile Melvins ultimo periodo (“Thunder Pinky”), tastieroni sibilanti e slide guitar da irreale drive-in à la De Lillo (“I Found The Way Out”). Il grosso è più o meno tutto qui. In mezzo, poi, apriti cielo: demenziali jogging noise (“Tiny Sound / I Don't Know, Why?”), svalvolate ambientali (“There Goes The Neighborhood”), strimpellate country da nosocomio (“String Bean”), rimbalzi industrial retrofuturistici (“Slide On Up”) e tutta una serie di vignette ermetiche, a mo’ di haiku, in cui la sola batteria di Crover si esibisce in forme e contesti diversi (“Chicken A La Wing”, “None, No More”, “The Short Con”, “Giant Hunka Cake”, “Horse Pills”, “Vulnavia”).

Sardonico, centrato e piacevolmente destabilizzante: vota Dale Crover per una chart degna di questo nome!

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