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R Recensione

6/10

King Buzzo w/ Trevor Dunn

Gift Of Sacrifice

Nell’ormai lontano 2006, l’uscita del devastante “(A) Senile Animal” venne salutata come un evento dalla portata a suo modo storica: fatte salve le collaborazioni sporadiche con Jello Biafra e Lustmord, si trattava del primo disco a nome Melvins in ben quattro anni, per di più scritto e inciso con una formazione a due batterie profondamente rinnovata rispetto a quella sentita in azione sul precedente “Hostile Ambient Takeover” (2002). Col senno di poi, si trattò dell’atto fondativo di un nuovo corso, che, dall’eccellente “Nude With Boots” (2008) in avanti, diede tuttavia la stura ad una serie interminabile, terribilmente discontinua e spesso inconcludente di lavori in studio. Tra le poche eccezioni alla regola, il pimpante e ingiustamente sottovalutato “Freak Puke” (2012) con lo pseudonimo di Melvins Lite, ossia in essenziale assetto a tre con il superospite Trevor Dunn al basso. Lo schema, curiosamente, si ripete oggi con minime variazioni: con la produzione della band madre ferma da ormai due anni e mezzo, ossia dal discreto “Pinkus Abortion Technician” del 2018 (senza con questo tenere conto, per brevità d’esposizione, della sfilza di 10” per Amphetamine Reptile licenziati tra 2019 e 2020 assieme a Flipper, ShitKid, Redd Kross e Mudhoney), a spezzare un po’ a sorpresa il silenzio è il leader King Buzzo con il proprio secondo autografo solista, il successore dell’antologia acustica “This Machine Kills Artists” (2014), realizzato nuovamente a quattro mani con Dunn e anticipato di qualche mese dal gustoso EP preparatorio “Six Pack” (sì, il riferimento è proprio quello).

Accostare l’aggettivo “strano” (meglio ancora: weird) alla produzione di Buzzo è un cliché fraseologico così abusato da non suscitare più alcun effetto, ma, come dire?, “Gift Of Sacrifice” è proprio strano. Non è, anzitutto, il disco di miniature acoustic-sludge che ci si poteva aspettare in continuità con “This Machine Kills Artists”, ma una vera e propria raccolta di canzoni, quasi tutte oltre i quattro minuti, due addirittura oltre i sei. Non è nemmeno qualcosa che si possa affermare con certezza si sia già ascoltato nel nutritissimo catalogo dei Melvins: a riaffiorare sono, naturalmente, svariati elementi chiave (modulazione ed estensione dei riff, il cantato a più riprese litanico, la sconsiderata tendenza a buttarla in baraonda sul finale), ma inseriti in un contesto che rimane indecifrabile anche dopo molti ascolti. Si prenda, a mo’ di esempio, l’iniziale “Housing, Luxury, Energy”: dopo un attacco da ballata acustica, avvolta in un bizzarro e svolazzante arrangiamento d’archi, entra sommessamente la voce di Buzzo, un rapsodo controculturale che sciorina in ipnosi una strofa dietro l’altra. La chitarra si ispessisce uno strato alla volta (è forse questo un Dylan melvinsiano?), seguendo il progressivo inerpicarsi delle linee vocali su tonalità sempre più alte: poi tutto collassa improvvisamente su sé stesso, ritraendosi in un indistinto moto ondoso di soundscapes. Cosa pensarne? E chi lo sa. “Delayed Clarity” rilancia con un classico riff cadenzato, arricchito da sovrastrutture armoniche quasi AOR: fatta eccezione per un’apertura di archi quasi impressionistica dopo la prima strofa, tuttavia, l’andatura è inerziale, intontita, latamente psichedelica. Forse “Science In Modern America” è più indulgente con l’ascoltatore? Macché: mid sludgeggiante, spezzettato, senza grandi intuizioni melodiche né un arrangiamento particolare, con coda ancora rumoristica.

Non lo si sa bene come prendere, “Gift Of Sacrifice”, per il semplice fatto che sembra sempre perso nel tentativo di evocare qualcosa che, per scelta o limitazione, non osa rappresentare direttamente. L’esplorazione meccanicistica della ripetizione? Il recupero degli schemi di scrittura circolari del folk-blues prebellico? Una nuova sintesi di swamp blues uroborico? Se dicessimo “uroborico” a King Buzzo ci arriverebbe probabilmente un pugno in pieno volto (quello che si era già preso Omar Rodríguez-López nel video di “Running Away”), pertanto soprassediamo. O forse no, perché la direzione del progetto, sebbene schizofrenica ed eterogenea, a tratti si intravede con chiarezza: nel gothic-blues con backing vocals femminili di “I’m Glad I Could Help Out” (bel contrappunto di Dunn al basso), nella sonatina dissonante con voci in backwards di “Junkie Jesus” (Dunn mette qui a disposizione la propria esperienza come compositore di musica da camera, esibita nella recente crestomazia per TzadikNocturnes”) e in “Mock She”, praticamente un inedito degli ZZ Top con stacco centrale cabarettistico e demenziale loop a chiudere.

Il giudizio? La prossima volta.

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