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R Recensione

8,5/10

Fire! Orchestra

Enter

Dopo appena un anno dalle deflagrazioni kraut rock, che si fanno free jazz e scarnificano il soul ridandogli nuova linfa, di “Exit!, torna l'orchestra delle meraviglie di Mats Gustaffson, Johan Berthling e Andreas Werliin, quest'ultimo già membro pulsante dei WildBirds & Peacedrums (altra meraviglia scandinava, da seguire ed amare senza riserve). 

Già dalla copertina – un occhio spalancato – si intravede, quasi come una premonizione, ciò che stiamo per accingerci ad ascoltare: un'analisi spietata, chirurgica, imparziale, oggettiva, da Kinoglaz, sul vernacolo jazz, carnalità soul, tribalismi, impennate free-form, vocalese, il tutto condensato, rimestato e sputato fuori in maniera quasi matematica; oppure il terzo occhio, la parte esoterica del sé, dell'ancestrale, del pagano che si lacera le carni per ricongiungersi al divino, quasi come un battesimo del fuoco, in attesa dell'oracolo?

Tutte e due le cose o il loro contrario, se preferite; sì, perché mai come ora il concetto di musica globale, di sintesi tra colto e non colto, tra carnale e spirituale in questa mirabolante orchestra di folli visionari trova il suo approdo, declinando il verbo jazz come solo i grandi maestri sanno fare, risvegliandolo dal torpore, restituendogli quella caratteristica primigenia, che gli era appartenuta da sempre: il popolare, il folklorico, il bandistico, ricollocandolo in una prospettiva trasversale, multiculturale, di linguaggi, all'apparenza distanti, che si fondono e coesistono in maniera miracolosa.

Ecco a voi allora una suite, che risponde al nome di “Enter”, suddivisa in quattro movimenti, ovvero otto, forse sedici (il tentativo di dissezionare la materia musicale a volte è esercizio didascalico, farraginoso, talvolta fallace, ma tant'è) micro schegge impazzite di soul, noise, free-form e jazz in un andamento ferino, felpato del basso, tastiere e batteria, degno della migliore tradizione jazz pregna d'Africa, dalle parti di Max Roach ed Abbey Lincoln ed i loro “We Insist!” e “Straight Ahead”, congiunti da innesti noise-free-form in odore di Pere Ubu o Red Krayola che fungono da ponte tra la seconda e la terza parte, ovvero di nuovo Abbey Lincoln, che sfocia in una coda deflagrante à la Peter Brötzmann. E questo è solo il primo movimento della suite.

Dopo ci sarà solo (!?) una rilettura free-funk di “Tomorrow Never Knows dei quattro baronetti, dove qui la parte del leone la fa Simon Ohlsson, in una performance non sempre riuscita, con quelle urla non sempre piazzate bene (non sei mica Iggy Pop, caro mio, ma vabbè). Questioni di lana caprina, direte voi, non fosse altro perché poi si fanno spazio di nuovo le stratificazioni di feedback e disturbi elettronici che fanno da ponte alle scorrazzate Sheppiane di Mats Gustaffson, che si ricongiunge al maestro John Coltrane tramite il suo discepolo, colorando il tutto con favolose percussioni ed umori Etiopi, Una “Africa” a braccetto con Fire Music e la Far East Suite del Duca.

Come se non bastasse, prima della ripresa finale, da big band, del tema iniziale con la splendida e straordinaria Mariam Wallentin, la cantante di origini etiopi Sofie Jernberg ed il già citato Ohlsson a dividersi il microfono in un'estasi quasi carnevalesca, bandistica, ci sono le sperimentazioni vocali, ardite di Wallentin, tra Diamanda Galás, Meredith Monk e Patti Waters, che poi riallacciano e riannodano le fila del motorik tribale di “Exit!” per diventare la Liberation Music Orchestra che incontra Peter Brötzmann e Joe McPhee: una cosa a dir poco straordinaria, da non credere alle proprie orecchie. You got to Exit to Enter, è vero. Ma adesso? Cos'altro si inventeranno? Space is the Place, diceva qualcuno, ora tornato nell'iperuranio. Buona idea.

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fabfabfab alle 11:36 del 17 febbraio 2015 ha scritto:

Sempre abbastanza ostici, ma sempre molto interessanti. Jazz dell'iperuranio, veramente. Ottimo Paolo.

Paolo Nuzzi, autore, alle 12:07 del 17 febbraio 2015 ha scritto:

Grazie caro, in effetti sono un po' ostici, specie gli inserti noise-avant-garde tra un movimento ed un altro, ma non appena si entra dentro, non se ne esce più.