Bob Marley
Natty Dread
“…My feet is my only carriage, and so i've got to push on through…Oh, while i'm gone, everything's gonna be all right!”
Le parole di “No Woman, No Cry” (scritte dall’amico fraterno Vincent Ford) sono di una semplicità che disarma: eppure hanno un trasporto emotivo commovente, significativo dei veri inni popolari impermeabili alle stagioni. Quella voce imbevuta di misticismo e leggenda si è ormai sedimentata nei decenni di generazioni sparse nel globo, insieme all’organo liturgico di Bernard “Touter” Harvey e al tipico ritmo in levare delle bacchette di Carlton Barrett. Robert Nesta Marley conobbe Ford durante gli anni giovanili a Trenchtown, campare era una questione complicata come arrivare a metà giornata con un boccone nello stomaco, e dio solo sa quante volte Vincent aiutò il povero ragazzo nato da un ex-capitano inglese e una giovane indigena a sfamarsi e tirare avanti.
“No Woman, No Cry” è certamente il brano più conosciuto di “Natty Dread”, e uno dei più celebrati dell’intero catalogo di Marley: decine nel tempo i tributi (Joan Baez, Fugees, Pearl Jam, Jimmy Buffett tra gli altri) e memorabile l’accorata versione dal vivo contenuta nel torrido “Live!”, registrata al londinese Lyceum nel luglio 1975. “Natty Dread” era il nomignolo che in Giamaica indicava un singolo componente di cultura rastafari e la sua caratteristica acconciatura di dreadlocks, un simbolico titolo-manifesto per il primo lp a esibire la sigla “Bob Marley & The Wailers” senza i storici compagni Bunny Livingston e Peter Tosh, quello con l’entrata in organico delle preziose coriste I-Threes (la moglie Rita, Judy Mowatt e Marcia Griffiths) e di una sezione ritmica epocale. Sarà l’album della grande affermazione internazionale dell’iconico leader, che amava firmarsi i testi con divertenti pseudonimi, un saggio maturo e impegnato della filosofia spirituale rasta dopo i già notevoli “Catch A Fire” e “Burnin’”.
“…Lively up yourself, and don't be no drag. Lively up yourself, 'cause this is the other bag…”
Il reggae è un pacificato mantra di ricerca interiore, una progressione armonica elementare e sempre identica ma dalla straordinaria forza ipnotica, il biblico “Talkin’ Blues” del popolo giamaicano che esorcizzava le sue millenarie sofferenze nel nome di Jah. Parliamo di disperazione e rinascita, di piedi troppo grandi per le tue scarpe vecchie e malandate, della “terra fredda e rocce” dove hai riposato la notte scorsa. Parliamo di blues, fratello: lo stesso sentimento che nasceva alla foce del Mississippi un secolo fa. Storie di ghetto e povertà estrema, d’ingiustizia e riscatto che il canto del carismatico Bob racconta invitando alla presa di coscienza individuale e sociale (il respiro soul di “Bend Down Low”), all’emancipazione da un sistema avido che può ucciderti fin dalla nascita. È “musica ribelle”, la rivelazione che porta la sporcizia della verità sotto i nostri occhi, il fuoco che brucia in noi un mai sopito istinto di libertà e arde la rivoluzione (“Revolution”).
“…Never make a politician grant you a favour…They will always want to control you forever, eh! (forever, forever). So if a fire make it burn (make it burn, make it burn)…And if a blood make ya run (make ya run, run, run)…”
Il basso pulsante di Aston Barrett apre il terzo lavoro Wailers con il movimento sinuoso dello spiritual “Lively Up Yourself”, un rhythm’n’blues rallentato di fiati Stax e i ricami felpati del chitarrista Al Anderson sull’epidermico refrain che ripete sornione “ti animerai a non essere di peso, animatevi perché il reggae è un’altra faccenda…” La breve studio-version di “No Woman, No Cry” non ha il pathos della consorella live ma riesce comunque a caratterizzarsi per una primordiale e curiosa drum-machine, vibrano invece di potente passione antagonista l’eloquente “Them Belly Full (But We Hungry)”, con liquide note di wah-wah a sostenere versi che non hanno bisogno di ulteriori spiegazioni (“loro hanno la pancia piena ma noi abbiamo fame”, ”una folla affamata è una folla arrabbiata”), e la dura reprimenda contro i soprusi d’una legge corrotta e matrigna dell’autobiografica “Rebel Music (3 O’Clock Roundblock)”, aggraziata da un’incisiva armonica e il morbido piano elettrico di Harvey. Di questo e altro è pervaso l’importante e minimale “Natty Dread”, prodotto ancora dal boss della Island Chris Blackwell (padrino dell’ascesa artistica mondiale di Marley a prima rockstar “terzomondista”) e rilasciato sugli scaffali il 25 ottobre ’74. “Rivoluzione”, “libertà”, “radici” e “Babilonia” sono sante parole che ritroviamo spesso nelle canzoni del profeta di Kingston, sono il sangue, la frustrazione e la carne dei suoi antenati trasmigrati in un lento e immortale blues di speranza.
"Trenchtown non è in Giamaica, Trenchtown è ovunque, perché è il luogo da cui vengono tutti i diseredati, tutti i disperati...Perché Trenchtown è il ghetto, è qualsiasi ghetto di qualsiasi città..."
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