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R Recensione

6,5/10

GDG Modern Trio

Spazio 1918

Solitamente ipertrofica e assai diversificata, già da un paio d’anni la carriera di Bruno Dorella (OvO, Ronin, Bachi Da Pietra, Byzantium Experimental Orchestra) sta conoscendo un salutare rallentamento, fondamentale per rimettere in ordine le idee e concentrarsi su qualche progetto collaterale di minor respiro. Così è stato nel 2017, scelto per l’omonimo debutto su cassetta del duo Tiresia (assieme a Stefano Ghittoni dei Dining Rooms) e per il curioso “1/4”-XLR”, vinile a tiratura limitata distribuito con lo pseudonimo di Jack Cannon: così anche nell’anno corrente, che – oltre all’esordio dietro le pelli per il ritorno dei Sigillum S, “The Irresistible Art Of Space Colonization And Its Mutation Implications” – vede Dorella esordire come chitarrista e vibrafonista del GDG Modern Trio, ennesima avventura dello spirito condivisa con il summenzionato Ghittoni e Francesco Giampaoli (Sacri Cuori).

La geometrica iconografia tra El Lisickij e Dziga Vertov, l’esplicito riferimento del titolo (“Spazio 1918”) e ulteriori spunti tipografici suggeriscono il legame con uno spaziotempo a cavallo tra due mondi, un’epoca in sobbollimento dove anarchia dello spirito, visioni futuristiche e precoci irrigidimenti ideologici convivevano fianco a fianco e contribuivano a plasmare la forma mentis dell’artista nuovo, uomo figlio di un’era e progenitore di un’altra. Al tema, obiettivamente intrigante, corrisponde una libera interpretazione musicale non meno interessante, una serie di tracce sviluppate non consequenzialmente a partire da alcune sparse idee di Ghittoni, legate fra loro da un pugno di intermezzi di raccordo (i mariachi samplizzati di “Interferenza 1”, i cityscapes in backwards di “Interferenza 2”, il whistling spensierato sull’elettronica di “Interferenza 3”). Molto bella la title track, un hard boiled che prende corpo da una corposa linea di basso, su cui vanno a modularsi chitarre trattate e vibrafoni da lounge bar: perfettamente all’altezza la cold wave lustrata di twang e incisi folklorici (la chitarra classica di Giampaoli modulata a mo’ di mandolino) in “Retrophuturo”, il western-hop di “Astro Blue” e la (post) world cinematografica della conclusiva “Micronesia”. Alcuni episodi sono ancora più affascinanti che esteticamente belli (il blues al ralenti di “X-Rated”, sorretto da un minimale battito sintetico, o le superflue linee vocali dello psych-dub di “Spirit”) ed altri avrebbero avuto bisogno di un’ulteriore rifinitura (in “Audrey’s Blues” è contenuta quasi una piccola orchestra, ma c’è un minuto e mezzo di troppo), ma il livello generale – specialmente per profondità ed originalità di intuizioni teoriche – rimane decisamente buono.

Disco che vale la pena conoscere e a cui attingere, di tanto in tanto.

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