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R Recensione

6/10

Lebowski

Cinematic

Certo che l'aggettivo chiamato a dare il nome a quest'album parla sin troppo chiaro e svela, prima ancora di cominciare, l'orizzonte sonoro perseguito dalla formazione polacca. Non bastasse il titolo, nelle note al disco, questo viene descritto come 'a soundtrack to a non-existent movie' e come un omaggio a grandi visionari della cinematografia nazionale e internazionale. Il riferimento al “drugo” dell’immenso film dei fratelli Coen è meno significativo, tanto artigianale il suo stile di vita in confronto alla seriosità prescelta dalla band.

Scoperti grazie all'inserimento a sorpresa nella programmazione di una nota radio romana, i Lebowski si sono lasciati subito apprezzare per le loro lunghe composizioni strumentali, che innestano sia influenze post-rock (anche se al riparo dai cliché più classici del genere), sia ripercussioni psichedelico-progressive. La musica sembra elaborata a trame sovrapposte e ciò dona all'amalgama finale spazialità, tridimensionalità. I brani spesso si arricchiscono del suono di strumenti di tradizione etnica (le prime note del disco sono scandite dal duduk armeno), altre volte di richiami al jazz di casa a ECM (in particolare l'intensa title-track che sa tingersi di colori appartenenti alla gamma usata dal Jan Garbarek Group). Ognuna delle tracce che da vita a "Cinematic" non si accontenta mai di una sola idea sonora, ma nel corso della sua evoluzione progredisce in varie direzioni (anche troppe), non provando appagamento da un singolo quadro di riferimento. Così, variamente, nel corso del programma emergono e si alternano le fonti di ispirazione del quartetto: Pink Floyd, Camel, Pat Metheny Group, Marillion (era Steve Hogarth), Gazpacho, Explosions In The Sky. Le ritmiche sono sempre piuttosto distese (anche se un plauso particolare deve levarsi a favore del bassista Marek Zak) e la musica procede senza fretta indugiando molto nelle atmosfere create: che "Cinematic" sia frutto di jam improvvisative in studio, ben più che di un lavoro di penna è ben percepibile, anche se la fase di rifinitura, quasi di cesello, ha dato frutti evidenti. Tutto il disco scorre adattandosi al panorama che scorre dai finestrini di un treno o dal parabrezza di una macchina, senza offrire un focus, un nucleo pulsante, risultando altresì uniforme e omogeneo. Ciò può essere un pregio come un difetto, e in 66 minuti di musica, il latitare di drastici cambi di location, può apparire come un limite. Forse giusto l'impeto di Spiritual Machine riesce a porsi al di fuori dalla cartografia sonora dei Lebowski. Particolarmente utile sarebbe stato l'inserimento di un cantato in alcune composizioni: i sample tratti dai film che maggiormente hanno influenzato la band non bastano da soli a marcare ulteriormente il carattere delle composizioni. Che di per sé sono pervase da anima e ispirazione, ma che non sempre  riescono a lasciare un segno memorabile (o almeno di distinzione l'una dall'altra) o a trasmettere una volontà di innovazione. Certamente non rientra tra gli obiettivi dei polacchi di rompere schemi e consuetudini. Riescono concretamente, con professionalità e con una perizia tecnica che non soffoca mai l'ariosità della temi melodici proposti, a realizzare un debut album fascinoso e maturo, perfettamente riassunto nella splendida conclusione di Human Error.

Ora si tratta di vedere quali sfide saranno pronti ad accettare i Lebowski per il futuro e quanto impegno metteranno per muoversi al di fuori di territori in cui hanno dimostrato di padroneggiare la geografia. E' indubbiamente opportuno che un altro album sappia guardare oltre panorami già eloquentemente descritti, anche con un po' di manierismo.

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